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Finanza e Mercati In primo piano

Rampl: con Profumo vedute diverse su governance
Parlano gli economisti Vaciago, Forte, Boeri e Vitale

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Questo articolo è stato pubblicato il 22 settembre 2010 alle ore 19:51.

L'era di Alessandro Profumo in UniCredit era terminata all' 1 e 14 di questa mattina con una lettera. Quella del Cda che ufficializzava le dimissioni dell'amministratore delegato. In giornata, sempre oggi, e sempre con un'altra lettera è iniziata l'era post Profumo. Il presidente di Dieter Rampl ha voluto inviare ai dipendenti una missiva, una comunicazione interna.

Rampl accenna soltanto alla rottura con Profumo. Il messaggio è improntato a instaurare un clima di fiducia e a marcare un senso di continuità. L'uscita dell'ex ceo spiega il presidente, che ha l'interim della gestione, ai dipendenti è stata causata da «differenti vedute» riguardo alla governance.

UniCredit andrà avanti nelle sue strategie: Rampl ha confermato innanzitutto che il progetto «Banca Unica» resta una priorità. L'istituto è una grande realtà internazionale e proseguirà nella sua strategia per confermare il posizionamento al top in Europa.

Da una lettera all'altra, insomma. Da un'era all'altra. Anche se le discussioni sull'uscita di quello che è stato un po' impropriamente definito l'ultimo dei mohicani (il valoroso indiano combatteva per la libertà,qui si parla anche di buonuscite multimilionarie) sono tutt'altro che esaurite. Il Sole24ore.com ha raccolto i pareri di quattro importanti economisti italiani sulla vicenda.

Una governance inadeguata
«I modi con cui è stata gestita l'operazione - dice Giacomo Vaciago, docente di politica economica all'università della Cattolica di Milano - sono stati incivili, non degni né di una grande banca né di un paese industrializzato. Inoltre, la successione, in un gruppo societario di tali dimensioni, dev'essere preparata. Non si può cacciare così, su due piedi, l'amministratore delegato».

Un aspetto, quello del governo aziendale, ripreso dallo stesso Tito Boeri, docente di economia del lavoro all'università Bocconi di Milano. «Credo esista un problema sotto questo profilo, per un duplice motivo. Il primo riguarda il metodo seguito per arrivare alla dimissioni di Profumo. Nessuno mette in dubbio il diritto degli azionisti di cambiare il management, anche in una fase di mutamento come quello che sta vivendo UniCredit. Tuttavia, bisogna farlo nelle sedi giuste, nel Cda. Qui, invece, la decisione sembra comunque maturata al di fuori degli organi deputati. Di più: non è stato ancora individuato il successore. Una mancanza di continuità nella gestione che preoccupa». E il secondo motivo? «Bé, non mi sembra che la performance di piazza Cordusio sia così deludente da giustificare questo cambiamento».

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Anche Marco Vitale, economista d'impresa, esprime il suo disappunto: «Si tratta di una pessima notizia non solo per Profumo, non solo per la banca, bensì per tutto il Paese. Sia per l'evento in sé, che per le modalità che hanno portato a tali dimissioni. Ancora una volta la serietà e la moralità manageriale vengono punite dal sottobosco politico».

Profumo, i libici e il "Bancone"
Se sussiste una convergenza d'opinioni rispetto alla governance, l'unità tra gli esperti svanisce nel momento in cui si cerca il perché di un tale passaggio. «Profumo - è il commento di Vaciago - ha commesso un errore: quello di averci spiegato che i libici sono investitori qualunque. Non è così. La Lia (Lybian Investment Authority, il fondo sovrano di Tripoli) e la Banca centrale libica sono sottoposti al medesimo controllo. Sono sotto la tutela di un dittatore come Muammar Gheddafi: questo è un fatto che non può negarsi. Quindi, le loro quote non vanno considerate separatamente, bensì devono essere pesate insieme». Con la conseguente violazione del tetto massimo del 5% al possesso per il singolo azionista, così come definito dallo statuto del gruppo bancario.

Per Boeri, invece, una motivazione può trovarsi nelle trasformazioni interna al gruppo stesso. «È difficile definire i motivi reali, bisognerebbe conoscere a fondo le dinamiche interne del gruppo. Ciò detto, il progetto di banca unica che prevede la razionalizzazione, e l'eliminazione, di diversi consigli d'amministrazione, ha causato certamente forti frizioni all'interno. Evidentemente diverse rendite politiche locali hanno il timore di perdere potere e hanno reagito».

Francesco Forte, professore emerito all'università La Sapienza di Roma, affronta la questione ad un livello più di sistema: «Ciò che risulta ancora una volta è che le fondazioni bancarie sono strutture anacronistiche. Un'istituto internazionale quale UniCredit dev'essere per forza glocal: locale e globale, allo stesso tempo, per competere sui mercati. Le fondazioni, invece, si sono mostrate troppo locali, e la loro ingerenza nella gestione crea effetti negativi. Una cinghia di trasmissione con la politica non positiva».

Le fondazioni, però, sono state chiamate a ricapitalizzare l'istituto che, da parte sua, ha limitato la cedola. Inoltre poteva fare ricorso ai Tremonti bond... «Certo, ma non ne farei una colpa. Non si può giustificare con ciò la fuoriuscita di Profumo». «Sembra prevalere - fa da eco Boeri - una strategia "localistica", legata alla politica, che non fa bene alle banche: gli istituti finanziari, che devono sostenere la piccola e media impresa, non possono richiudersi su se stessi. Devono anche focalizzarsi sull'internazionalizzazione del loro business».

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