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Finanza e Mercati In primo piano

La follia di Jérôme ha messo in luce il buio dei controlli

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Questo articolo è stato pubblicato il 06 ottobre 2010 alle ore 08:08.

Jérôme Kerviel è un Robin Hood scornato che dovrà farsi tre anni di galera e (molto teoricamente) rimborsare alla banca per cui lavorava come trader i soldi che le aveva fatto perdere, 4,9 miliardi di euro. La discesa agli inferi, cominciata il 18 gennaio 2008 quando i suoi superiori scoprirono che aveva preso posizioni non autorizzate sui futures per 50 miliardi di euro, continua. Cifre da contrappasso dantesco circolano sul tempo che gli ci vorrebbe per indennizzare Société Générale (177mila anni al suo stipendio attuale di 2.300 euro al mese) anche se l'appello preannunciato bloccherà qualsiasi meccanismo di eterno rimborso.

Chi ha seguito lo spettacolare processo che si era tenuto dall'8 al 25 giugno non è molto stupito dalla sentenza, anche se legittimamente si interroga sul perché il giudice Dominique Pauthe abbia voluto infliggere a Kerviel anche una pena risarcitoria che non potrà essere rispettata. Durante tre settimane di udienze, mai la difesa era riuscita a esibire elementi probanti sulla responsabilità della banca, l'ormai famoso «non potevano non sapere» che l'ex trader e il suo avvocato Olivier Metzner hanno continuato a sostenere e ripetere ogni giorno, più volte al giorno, davanti alla corte. Il pronunciamento di ieri segna sotto il profilo giudiziario uno spartiacque netto tra il colpevole e la vittima, una linea di divisione che era stata sempre ambigua e confusa da quando era iniziato l'affaire Kerviel. Beniamino dell'opinione pubblica, artefice e vittima al tempo stesso degli eccessi dell'economia finanziaria, solo e solitario contro una banca che è leader mondiale dei derivati azionari, imbottita di maghi del calcolo stocastico usciti dalle grandi scuole di Francia, tutti contro un uomo solo, a sua volta parte infinitesimale di un meccanismo perverso che ti portava a raddoppiare le puntate sui mercati, come nella vecchia martingala. E ancora: outsider della piccola borghesia di provincia contro l'aristocrazia della finanza parigina, a cominciare dalla gelida supponenza del patron di SocGen ai tempi dell'affaire, Daniel Bouton, che però quando è riapparso in pubblico al processo ha saputo essere più convincente dell'imputato, grazie al briciolo d'umanità che anche i più duri si guadagnano dopo un'esperienza traumatica («sono nella sgradevole posizione dell'uomo che ha cercato di comprendere e alla fine non ha capito nulla», disse, allargando le braccia, durante la sua testimonianza).

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Tags Correlati: Daniel Bouton | Dominique Pauthe | Giustizia | Jérôme Kerviel | Olivier Metzner |

 

Chi pensava che l'empatia tra Kerviel e un'opinione pubblica già invelenita contro la finanza per gli effetti della crisi si sarebbe tradotta, in termini giudiziari, in uno sconto di pena, in una concessione al pubblico che tifa sempre per il più debole, si è sbagliato. Dominique Pauthe è un giudice puntiglioso, talmente serio che per il processo ha fatto un corso accelerato di finanza mostrandosi a proprio agio sulla terminologia complessa dei mercati e sui meccanismi di funzionamento delle sale di trading, ovviamente back, front e middle office compresi. Da subito ha inchiodato l'ex trader alle proprie responsabilità, riconosciute e dimostrabilissime, in attesa che il leit motiv difensivo, riferito alle gerarchie di Société Générale, si sostanziasse. Ciò non è accaduto nonostante le circa trenta testimonianze della difesa e in più, tra il giudice e l'imputato, è stato subito gelo caratteriale, forse anche generazionale. Fin dal primo giorno d'udienza, l'ostentata sicurezza di Kerviel, che secondo alcuni osservatori sarebbe stata intenzionale, ha infastidito Pauthe: «Mi faccia il favore di non bere dalla bottiglietta quando mi rivolgo a lei!», l'aveva subito apostrofato. La condanna al risarcimento impossibile non è solo la sottolineatura con la matita blu di una pena carceraria già pesante, ma il segno che distingue e separa la colpa (di Kerviel) dalla responsabilità: quella di una banca i cui sistemi di controllo erano talmente permeabili da permettere a un singolo dipendente di giocare 50 miliardi di euro, cifra che superava abbondantemente il patrimonio netto dell'istituto. Nel testo della sentenza si legge a un certo punto che gli atti di Kerviel «hanno messo in pericolo l'ordine economico mondiale», un elemento importante, da sempre sotto gli occhi di tutti ma mai messo abbastanza in evidenza. Visto quello che è successo col fallimento di Lehman Brothers, che magnitudo avrebbe avuto la crisi se a scatenarla fosse stato il crollo di una delle più importanti banche europee? L'incoscienza e l'autismo lavorativo del trader alla fine hanno fatto suonare l'allarme della finanza internazionale, a un passo dal baratro. La sentenza di ieri racconta la storia di una catastrofe (collettiva) evitata e di un dramma personale che non è ancora finito.
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