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Questo articolo è stato pubblicato il 15 ottobre 2010 alle ore 07:38.
Nella «guerra delle valute» che imperversa da un mese, l'euro è per molti la vittima predestinata. La mancanza di una vera e propria autorità che governa la politica valutaria nell'Eurozona e l'atteggiamento relativamente più aggressivo sui tassi della Bce rispetto alle altre Banche centrali (Federal Reserve per prima) rende vulnerabile la moneta dell'Unione alle svalutazioni competitive che di fatto molti altri paesi stanno attuando.
Il fatto che ieri l'euro si sia spinto fino a 1,4123 dollari ne è un esempio piuttosto lampante. Non tanto perché il cambio abbia in questo modo raggiunto i massimi da 8 mesi sul biglietto verde (rispetto a yen, franco svizzero e sterlina è rimasto sostanzialmente stabile), quanto perché con quest'ultimo scatto la valuta comune si è nel complesso apprezzata del 5% rispetto a tutte le altre monete dallo scorso 8 settembre. E un movimento del genere costa molto in termini di competitività all'Europa
Gli analisti di UniCredit, per esempio, stimano che un apprezzamento del 10% del cambio effettivo (il doppio quindi dell'ultimo mese) possa provocare un impatto complessivo sul Pil dell'Eurozona dello 0,8% nell'arco di un anno e mezzo. «La quasi totalità di questo effetto - spiega Marco Valli, economista di UniCredit – si manifesta a partire dal secondo e si protrae fino al quarto trimestre dopo lo shock sul cambio». Le conseguenze dei movimenti di questi giorni, dunque, le vedremo soprattutto nel 2011 e cioè quando, paradossalmente, la Bce potrebbe ritirare parte dello stimolo monetario in nome dell'exit strategy che appare intenzionata a perseguire.
Questione euro a parte, la vera battaglia di questi giorni i mercati la stanno giocando soprattutto sul dollaro. La valuta Usa, indebolita dall'intenzione della Fed di attuare ulteriori misure espansive, è ieri inciampata in un nuovo ostacolo. È stata infatti l'Autorità monetaria di Singapore a innescare lo scivolone del biglietto verde annunciando un allargamento della banda d'oscillazione del dollaro locale verso un paniere di valute. In altre parole, Singapore ha di fatto annunciato un apprezzamento della propria moneta: quello che in fondo il G-7 chiede, invano, da tempo.
Sui motivi della mossa inattesa si stanno ancora interrogando gli operatori. Ufficialmente il paese asiatico ha parlato di necessità di evitare un'eccessiva crescita dell'inflazione «importata», quella che si crea acquistando all'estero beni in valute forti. Ma sul mercato sono circolati anche rumor di diverso tono, secondo i quali sarebbe stato raggiunto una sorta di accordo che prevede la concessione da parte di Singapore di una maggiore flessibilità valutaria in cambio di una mossa espansiva meno aggressiva e più graduale della Fed. Washington ha infatti lasciato intendere che lancerà a breve nuove operazioni di riacquisto di bond, ma non ha ancora chiarito quale sarà la tempistica, né soprattutto l'ammontare del programma. Se l'importo dovesse essere elevato, per esempio dai mille miliardi di dollari in su, e molto concentrato nei prossimi mesi, il biglietto verde potrebbe subire un tracollo che a Singapore e ad altri (leggi Cina) non farebbe piacere.