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Questo articolo è stato pubblicato il 14 gennaio 2011 alle ore 08:06.
Adesso ci si mette anche il petrolio. Il barile – che nel 2010 non aveva mai superato, se non per brevi periodi, la soglia degli 80 dollari – ora è proiettato con decisione a superare «quota 100»: il Brent è a meno di 2 dollari dal traguardo. E l'Opec ha già fatto sapere più volte di non voler intervenire, nonostante l'allarme dell'Agenzia internazionale per l'energia, secondo cui le quotazioni sono ormai «in zona pericolo per la ripresa».
Il record storico del petrolio – oltre 147 dollari al barile, toccati nel luglio 2008 – è ancora lontano. Così come sono lontani i picchi raggiunti nello stesso anno dai cereali. Ma la crescita, ora di nuovo contemporanea, dei prezzi energetici ed alimentari risveglia fantasmi inquietanti. La crisi alimentare, con lo strascico di violenze e scontri che purtroppo stiamo già cominciando a rivedere. E l'inflazione: incubo non solo della Bce, ma di tutte le banche centrali, anche perché si tratta di un'inflazione difficilissima da contrastare. Quella "core", che orienta solitamente le politiche monetarie, è quasi ferma, ma alimenti ed energia corrono all'impazzata. Nelle economie emergenti di India, Cina e Brasile, addirittura con ritmi a due cifre.
Nei mesi scorsi, mentre le quotazioni delle commodity agricole decollavano, in una corsa che le avrebbe portate in molti casi a raggiungere record pluriennali (è successo a caffè, zucchero, grano, mais, soia) gli esperti non facevano che ripetere lo stesso mantra: questa volta è diverso, perché nel 2008 anche il petrolio saliva all'impazzata.
La situazione è tuttora un po' meno drammatica, rispetto ad allora. La Banca mondiale, nel World Economic Prospects pubblicato mercoledì, assicura ad esempio che stavolta le popolazioni più povere sono meno esposte a rischi, almeno nel breve termine. I prezzi alimentari, sui mercati locali, sono infatti inferiori del 30% rispetto ai livelli raggiunti nel 2008, grazie soprattutto al cambio favorevole col dollaro.
Un altro aspetto, su cui la Banca mondiale non si sofferma, è che molti paesi in via di sviluppo hanno stavolta schiacciato preventivamente il pedale del populismo e del protezionismo, adottando prezzi sussidiati o politiche protezioniste, che in qualche caso addirittura non erano mai state abbandonate dal 2008 (l'India, ad esempio, non ha mai cancellato del tutto il bando all'export di grano, riso, cotone e zucchero).