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Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2011 alle ore 06:43.
Due mesi di tempo per modificare il decreto sulle golden share. In caso contrario, nuovo ricorso davanti alla Corte di Giustizia europea. Ma visto come è finito il primo, con un verdetto negativo, non è difficile immaginare come si concluderebbe il secondo. Dunque il Governo a questo punto non sembra avere alternative alla rinuncia o comunque a un forte ridimensionamento dei poteri speciali che il Tesoro detiene in alcuni grandi gruppi di importanza strategica come Eni, Enel, Finmeccanica e Telecom Italia.
Il contenzioso con Bruxelles su questo fronte si trascina da anni. Tanto che, nella speranza di venirne a capo una volta per tutte, la Commissione decise di rivolgersi ai giudici di Lussemburgo. Nel marzo del 2009 la Corte le diede ragione bocciando la normativa italiana, ritenuta incompatibile con quella comunitaria in quanto ostacola tanto la libera circolazione dei movimenti dei capitali quanto il diritto di stabilimento nel mercato unico.
Incassata la condanna, l'Italia non fece comunque nulla per correre ai ripari. Trascorsi alcuni mesi, Bruxelles nel novembre di quello stesso 2009 decise di inviarle una lettera di messa in mora. Ma anche quel passo non suscitò reazioni a Roma.
Dopo aver lasciato "dormire" il dossier per oltre un anno ora Michel Barnier, il commissario Ue al Mercato interno (vedi Il Sole 24Ore dell'11 febbraio), ha deciso di tornare alla carica passando al secondo stadio della procedura di infrazione. Ieri ha inviato all'Italia il cosiddetto "parere motivato", dandole altri due mesi per mettersi in regola. Se anche questi trascorreranno invano, scatterà la fase finale della procedura, cioè la nuova denuncia davanti alla Corte di Giustizia di cui si diceva all'inizio.
Nel comunicato diffuso ieri la Commissione riassume le sue obiezioni al decreto del 2004 sulla golden share che, ricorda, riconosce allo Stato «la possibilità di conferire poteri speciali per salvaguardarne gli interessi fondamentali, qualora siano messi a rischio».
Nel mirino i poteri di veto in caso di acquisizione di quote rilevanti di capitale delle società partecipate che rappresentino il 5% dei diritti di voto (o anche meno, se così stabilito). Quelli di veto anche in caso di patti o accordi tra azionisti su pacchetti che rappresentino sempre almeno il 5% dei diritto di voto. E ancora quello di veto su decisioni relative alla gestione delle società, come fusioni, scissioni, trasferimento all'estero, scioglimento o cambiamento di ragione sociale.