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Tre possibili vie d'uscita dalla crisi

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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2011 alle ore 08:07.

MILANO - La drammatica crisi libica potrebbe avere tre sbocchi, ipotizza in una nota riservata una società che offre servizi di sicurezza in Medio Oriente. Primo: Gheddafi potrebbe restare al potere o trasferirlo a uno dei sette figli. Secondo: il regime potrebbe essere rovesciato da un colpo di stato. Terzo: potrebbe essere spazzato via da una rivoluzione popolare.


L'ipotesi di un mantenimento dello status quo – si legge – poggia sul fatto che Gheddafi ha ancora un controllo dell'esercito, «che mostra la volontà di fronteggiare gli insorti». Un bagno di sangue renderebbe tuttavia «inevitabile la perdita di credibilità diplomatica», porterebbe alla reintroduzione di sanzioni americane e europee e dunque, per ritorsione, alla «revisione unilaterale da parte del regime dei contratti di petrolio e gas». Dei figli del colonnello, gli unici che potrebbero prenderne il posto sono Sayf al-Islam e Mutassem. Sayf sembra più gradito agli investitori per la sua «supposta attitudine a favore dell'Occidente», ma non è chiaro fino a che punto possa preservare i contratti in essere. Mutassem, consigliere per la sicurezza nazionale, è invece considerato un falco e risulterebbe gradito – secondo l'informativa – all'apparato del regime.

Seconda ipotesi ventilata nella nota: è presumibile che un gruppo di militari rimuova Gheddafi con un colpo di mano, anche se per ora, al netto delle diserzioni, «la parte significativa dell'esercito sta ancora facendo uso della forza». Un colpo di Stato, comunque, provocherebbe «un certo grado di rinegoziazione dei contratti esistenti, specie di quelli maggiormente legati alla famiglia Gheddafi». In alternativa l'esercito potrebbe assumere il potere per assicurare la transizione democratica del paese. In tal caso i contratti in essere sarebbero sostanzialmente garantiti.

L'ipotesi di una rivolta di massa, resa possibile dal crescente odio popolare verso la famiglia Gheddafi e i suoi affari, richiederebbe la coalizzazione delle tribù più grandi. Nel caso di una rivoluzione popolare come quella che ha travolto i regimi tunisino e egiziano, il paese piomberebbe in uno stato di «incertezza» e «nessun contratto potrebbe essere garantito».

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Tags Correlati: Gheddafi | Italia | Libia | Politica | Royal | Total

 

A prescindere dallo scenario che prevarrà, tutti concordano nel ritenere che l'industria degli idrocarburi rimarrà il cardine dell'economia libica. La produzione giornaliera di petrolio è oggi di 1,7 milioni di barili e rappresenta il grosso del prodotto interno lordo. Operano oggi in Libia le maggiori compagnie petrolifere, dall'inglese Bp all'anglo-olandese Royal Dutch Shell, dall'italiana Eni alla norvegese Statoil, dalla francese Total alla statunitense ConocoPhillips, e paesi quali Francia, Gran Bretagna e Italia hanno autorizzato la vendita di armamenti al regime. Danneggiamenti agli impianti e ai pozzi sono da mettere nel conto, riferisce la stessa nota. La tribù di al-Zuwayya ha già minacciato di distruggere le attività oil della parte orientale del paese «se il regime continuerà a ricorrere a tattiche brutali contro le proteste in corso a Bengasi». Ma si fa presto a riparare i danni, commenta un un ex manager del settore che chiede di non essere citato. Anche a suo avviso, l'energia resterà la principale fonte di sostentamento del paese, e i rischi di una nuova nazionalizzazione sembrano remoti non avendo la Libia né le competenze né le tecnologie per sviluppare in modo autonomo l'attività petrolifera.

Non bisogna tuttavia sottovalutare gli effetti di lungo termine della crisi: i possibili mutamenti del quadro legislativo interno e i conseguenti cambi di atteggiamento da parte delle compagnie occidentali.

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