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Andrea Aprea: così traggo ispirazione dalla valigia della memoria

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Storie di eccellenza

Andrea Aprea: così traggo ispirazione dalla valigia della memoria

Quando ti accomodi ad un tavolo del ristorante Vun a Milano, all’interno del Park Hyatt, a due passi dal Duomo e dalla Galleria Vittorio Emanuele II, ti chiedi come mai quel locale possa vantare soltanto una stella della guida Michelin. Poi, dopo aver assaggiato i piatti di Andrea Aprea, il dubbio cresce ancora di più. Non manca nulla: accoglienza, sapori, gusto. L’esperienza è di quelle che incaselli nelle giornate da ricordare.
Lui, lo chef, sorride, non commenta la mia battuta. Il suo affabile fare partenopeo non è stato assolutamente annacquato dai giri che ha fatto in mezzo mondo. Anzi, semmai ve ne fosse stato bisogno, la sua napoletanità è stata arricchita, amplificata dalle tante esperienze fatte finora, ed esplode non solo nel suo modo di fare, ma anche nei piatti che raccontano la sua cucina.

E’ per questo che parla sempre del valore della memoria?

Il mio lavoro è basato proprio su quello, sulla memoria. Ho dei gusti ben impressi nella mia testa e sono i gusti legati alla mia infanzia, e quindi non possono che essere legati alla cucina partenopea. Però mi è sempre piaciuto provare e sperimentare altri sapori regionali italiani e portare fuori la nostra cucina. Napoli mi ha dato la possibilità di concentrarmi maggiormente sulla cucina campana e di provare a dargli più valore, ma senza impedirmi di concentrarmi sul mio obiettivo principale, quello di fare prettamente cucina italiana. La nostra cucina ha gusto ma è al tempo stesso una cucina di sapori leggera. Abbiamo un patrimonio versatile, importante, che va sfruttato, comunicato. Io ho una frase che uso per far capire qual è il senso che voglio dare alla mia cucina, ai miei piatti: “guardo al futuro ma senza dimenticare le origini”. Questo per me si traduce nella massima attenzione nel contemplare la tradizione ma senza assolutamente dimenticare la contemporaneità.

Tradizione e contemporaneità che vanno a braccetto, come riesce ad integrare modernità e passato?

Io dedico i mie studi a piatti legati alla tradizione. Il baccalà ad esempio. Certo il mio baccalà è pur sempre un piatto 2.0, non è costruito allo stesso modo di come veniva realizzato trent’anni fa, ma resta un piatto fortemente legato alla sua memoria storica, alle sue origini.
Ce ne sono altri, invece, che vanno proprio in un’altra direzione. Sono piatti fatti con con prodotti italiani che sono legati alla versatilità dei prodotti del nostro paese, ma non esprimono sapori del passato.
Il mio maiale ad esempio. La carne arriva dai Nebrodi, è presentato con radicchio trevisano, aglio, olio, peperoncino, provola affumicata. In quel piatto c’è dentro l’Italia intera: nord, centro, sud. Non è un piatto che richiama la tradizione però, è un piatto contemporaneo, è un piatto italiano è un piatto che, partendo da oggi, forse può rappresentare la tradizione di domani. Questo è il messaggio che cerchiamo di trasferire ai nostri ospiti. E’ per questo che i due filoni, quello della tradizione e quello della contemporaneità non possono che andare di pari passo e siamo noi che, dal punto di vista gastronomico, dobbiamo essere bravi a reinterpretare la tradizione ed a costruirne di nuova.

Per raggiungere questi obiettivi quanto sono state importanti le esperienze all’estero?

Dire che sono state importanti è riduttivo. Per me sono state fondamentali. A me è servito lavorare in tanti ristoranti stellati in Inghilterra, sono tutte formazioni che mi hanno permesso di avere una tecnica e la tecnica portata nella nostra cucina ci permette di realizzare risultati importanti. Io sprono anche i ragazzi che lavorano con me a fare esperienze fuori. Il cuoco nasce con una valigia: deve essere sempre a portata di mano e deve seguirti nei tuoi viaggi. In quella valigia metti tutto. Poi arriva un certo punto in cui quella valigia la apri: è il momento in cui ti senti pronto, pronto di giocarti le tue sfide, hai voglia di farlo, e per farlo hai tanto da attingere dal tuo bagaglio personale, culturale e di preparazione tecnica. A trent’anni mi sono sentito pronto, pronto per fare i primi passi da solo. Ho aperto la mia valigia ed ho preso ciò di cui avevo bisogno. Ma questo non può bastare. Nel momento stesso in cui ci fermiamo per ripartire con una nuova avventura dovremo dimostrare a noi stessi ed agli altri di avere testa, di avere la tua visione, il tuo modo di inquadrare le cose, la tua prospettiva. La tecnica la impari, la visione no ed è quella che devi avere per esprimere la tua modalità di approccio alla cucina.

A proposito di valigia. Quali sono state le tappe principali?

La mia è stata una via tracciata, una passione coltivata. I miei avevano una ristorante-pizzeria a Napoli a piazza Carlo Terzo. E’ lì che ho cominciato a muovere i miei primi passi. Però all’età di diciotto anni ho cominciato a viaggiare. Ho lasciato Napoli ed il ristorante dei miei per fare nuove esperienze. Avevo voglia di scoprire il mondo e l’unico modo di farlo era andare. Napoli mi stava stretta è una città conservatrice. Volevo vedere cose nuove, scoprire cose nuove. La prima esperienza forte è stata quella sotto le armi. Ho scelto di fare il parà. Era il ’95 c’era la guerra in Kossovo. Il mio gruppo fu mandato a fare da supporto logistico. Ed anche durante il periodo militare mi sono ritrovato a fare il cuoco.
Quando arrivai mi chiesero cosa sapessi fare. Il cuoco, risposi, e fui mandato in cucina. La prima stagione da civile l’ho fatta in un albergo a Bibbione. Da lì sono andato a Londra da San Frediano. Dopo due anni mi propongono un’esperienza in Malesia a Kuala Lumpur. Accettai subito di buon grado, nonostante fosse dall’altra parte del mondo. Ho vissuto l’evoluzione straordinaria di quella città che pulsava della sua voglia di svilupparsi, un po’ come me, sempre alla ricerca di nuovi orizzonti. E’ stata una bellissima esperienza di vita, ma dopo un po’ mi sono reso conto di star ricevendo meno di quanto stavo dando. Ero io come cuoco a dare loro tutta la mia conoscenza ed io avevo ancora necessità di riempire la mia valigia.

E a quel punto il ritorno in Europa?

Direttamente a Londra dove ho incontrato Giacomo Balduzzi. Erano gli anni in cui la ristorazione stava crescendo. Fu lui a portarmi a Villa Cortine, sul Lago di Garda dove mi sono fermato per due anni, poi Firenze. Quindi dopo otto anni di girovagare ho sentito il desiderio di tornare a casa. Mi sono fermato al Rossellini per due anni, con Pino Lavarra. Ma con Londra nel cuore. Per questo sono tornato in Inghilterra prima al Waterside Inn e poi da Heston Blumenthal.
Intanto avevo incontrato la mia futura moglie. E le mie esigenze di vita stavano cambiando
Così torno in Italia prima a Sirmione, poi proprio a Napoli all’ Hotel Romeo al ristorante Il Comandante. Ero incerto se accettare o meno quella sfida. Ma scelgo di andare ed è stato quello il mio trampolino di lancio vero, lì ho ricevuto la mia “promessa” di stella.
Sono restato per tre anni mezzo e da lì sono arrivato a Milano, qui al Park Hyatt dove cercavano uno chef giovane quasi affermato che avesse voglia di crescere e di portare avanti un nuovo progetto gastronomico, quello del Vun.

Tutto complotta perché le cose accadano…

Mia moglie si era trasferita a Firenze dove insegnava, ma si sarebbe spostata volentieri a Milano. Milano intanto mi stava chiamando. Come rifiutare quel richiamo? Così abbiamo deciso ed a settembre del 2011 sono arrivato qui dove ho preso subito la stella dalla Michelin.

Cos’è cambiato?

E’ una nuova sfida. Ed a me le nuove sfide piacciono. Sono aperto disponibile ma testardo. Sono io sempre, sia nella vita che al lavoro. Ed il mio lavoro per tanti versi è la mia vita. La cucina e la mia famiglia, rappresentano i mie punti di arrivo, ma anche i mie punti di partenza per rilanciare nuove sfide.

E la valigia?

A Milano sto bene. La mia famiglia sta bene. Ma chi può dire dove ci porterà il domani…

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