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Aperitivo dietro le sbarre, nel giardino senza nome di San Vittore

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Storie di eccellenza

Aperitivo dietro le sbarre, nel giardino senza nome di San Vittore

Il portone corazzato di Piazza Filangieri potrebbe essere quello di una discoteca: massiccio e con gli specchi fumè, dai quali si può vedere dall’interno verso l’esterno e non viceversa. Superato il primo varco presidiato da una garitta blindata, una graziosa ragazza in divisa di poliziotta penitenziaria (non si chiamano più guardie carcerari né tantomeno secondini) ruota la pesante chiave di ferro e al terzo giro spinge il cancello blindato che introduce all’ingresso della sezione femminile. Di nuovo un altro cancello, questa volta con tre poliziotte che verificano i documenti e riportano sul libro mastro i nomi dei visitatori.

“Benvenuti a San Vittore” accoglie gli ospiti Marina De Berti, rappresentante di una Onlus milanese, la A&I, che dedica tempo ed energie per aiutare le donne finite in gattabuia. Una sessantina di milanesi hanno pagato venti euro a testa per trascorrere un pomeriggio con loro. L’aperitivo si tiene ogni venerdì dalla fine di maggio a ottobre nel rigoglioso giardino mediterraneo della sezione femminile, tra due giganteschi alberi di nespolo e un fico monumentale. Il giardino non ha un nome, e qualcuno lo ha ribattezzato proprio così, il giardino senza nome. Le detenute invece un nome ce l’hanno, e spesso coincide con i faldoni voluminosi della loro storia giudiziaria. Avvertenza. Questa è una storia al femminile, popolata di recluse, educatrici, volontarie e poliziotte. L’unica eccezione risponde al nome di Gianni Fumagalli, 67 anni, educatore premiato con l’Ambrogino d’oro. Qualcuno sostiene, scherzando, che Gianni sia stato accolto nel gineceo di San Vittore per la somiglianza impressionante con l’attore americano George Peppard, il protagonista di Colazione da Tiffany. Lui sorride, si accascia su una sedia e racconta la sua giornata di lavoro all’Expo in compagnia di tre detenuti che uscivano per la prima volta dopo dieci anni: “Lasciaci prendere il sole sulla pelle, mi imploravano”.

Colazioni e aperitivi sono l’uno la prosecuzione dell’altro, non a caso la De Berti con lo chef Stefano Isella, docente all’istituto alberghiero, gestisce all’interno della sezione femminile la libera scuola di cucina. Alla comitiva si sono aggregati anche i giovani adulti (dai 18 ai 25 anni), reclusi in un raggio a parte e adottati dalle ragazze del femminile. John, un giovanotto di origine egiziana con la parlantina sciolta, spiega agli ospiti milanesi che chiunque si aspettasse di trovare i detenuti con le tute a righe e una palla al piede dovrà fare i conti con una cocente delusione. Tutti ridono, ma fino a venti anni fa questo carcere piantato nel cuore della città non era così diverso da un girone dantesco. Poi è arrivata la sentenza Torreggiani, con la quale la Corte di Strasburgo ha messo l’Italia con le spalle al muro.

In realtà, a San Vittore qualcosa era cambiato a partire dalla direzione di Luigi Pagano, al quale è succeduta la romagnola Gloria Manzelli. Dopo il suo arrivo le caselle dei ruoli di vertice (direttore e vice, capo e vicecapo della polizia penitenziaria) si sono riempite una dopo l’altra con nomi di donne. La sezione femminile è naturalmente l’apoteosi del woman’s power, forse è per questo che le celle – ma succede anche nei raggi maschili – sono aperte dall’alba al tramonto. Qui, in più, c’è una pulizia maniacale, con gli orari per ramazze e candeggina scanditi dall’ispettore Giovanna Epifani, una salentina di polso. Immancabili i tocchi femminili, come le tende di finta seta che sventolano mollemente per difendere un brandello di privacy. Non si tratta di lussi. Per avere uno specchio a dimensione intera, una mezza rivoluzione, le recluse di San Vittore dovettero aspettare il 2005. Prima di allora si usciva di galera senza aver mai visto la propria immagine.

L’aperitivo è stato allestito dopo una giornata fitta di lavoro. Per l’occasione è stata chiamata la chef vegana Elena Losi de “La Sana Gola”. A Stefania, una trentatreenne spigliata di Como, sono stati affidati i dolci, per la precisione delle mini sacher che farebbero invidia al maestro pasticcere milanese Ernst Knam. Farà questo mestiere uscita dal carcere? Lei guarda il cronista con compassione: “Fine pena 2032” bisbiglia come per scusarsi. Dietro Stefania avanzano i giovani adulti con pantaloni e camicia nera guidati dall’educatrice Fiore Corrao. Chiedono di farsi fotografare con lei ma una detenuta li prende in giro: “Vi siete vestiti come i Neri per caso?” John, l’egiziano che fa da guida ( si fa chiamare così per non costringere gli altri a usare il suo nome impronunciabile) si è diplomato in carcere e una settimana fa ha partecipato al test per l’università Bocconi. Alessandro, 21 anni, capelli a spazzola brillantinati e pelle da scandinavo ne avrà per almeno sette anni. “Ho scelto il rito ordinario perché sono innocente, e mi sono beccato un terzo di pena in più”. Alessandro non cerca scorciatoie. Né commiserazione. Il carcere? “Qui si capisce come si sta al mondo”. Accanto a lui c’è Francele, italo-brasiliana di 27 anni beccata a Malpensa con 280 grammi di cocaina. “Ho una mamma e una figlia di sei anni che mi aspettano. Spero che il giudice mio conceda i domiciliari”. Tutti alternano momenti di profonda tristezza a sorrisi spontanei. L’aperitivo è la loro festa. Aiutati da Elena e Stefano hanno preparato solo cibo vegan: farinata di ceci, pizze di verdure e insalata di quinoa, tutto innaffiato da una Caipirinha analcolica con schweppes, menta e zucchero di canna.

Si mangia, si scherza e le educatrici raccontano la loro vita con i reclusi. Il rapporto tra assistenti sociali e detenuti è mostruosamente alto: “Uno a ottanta per le donne e uno a 150 per gli uomini”, dice Marianna Grimaldi che lavora all’Icam, la struttura di via Macedonio Melloni per le detenute con prole. Con lei c’è Francesca Masini, l’altra educatrice della sezione femminile. “È un momento di spensieratezza che aiuterà le ragazze a perdonarsi”. Un informatico sessantenne spiega perché ha partecipato all’aperitivo: “Sono istituzioni che vanno conosciute, rimuoverle dalla coscienza è un grave errore”. In questo luogo gli adulti provano un vago senso di colpa: dov’erano i padri quando i figli violavano la legge? Alle 21.30 è come se suonasse una campanella invisibile. I ragazzi e le ragazze cominciano a mettere ordine. La chef Losi si congeda dai discepoli abbracciandoli uno a uno come se fossero figli suoi. Tra poco le sbarre tracceranno i confini abituali tra visitatori e detenuti. Una separazione traumatica anche per chi ha trascorso il primo pomeriggio in carcere della sua vita. La De Berti cita la Spagna, in cui il diritto all’affettività e alla sessualità è una conquista acquisita. E la raffronta all’arretratezza italica, dove le detenute guardate a vista dalle suore, erano considerate soggetti da “correggere”. Un’epoca neppure così lontana, prima che la santa alleanza tra direttrici, poliziotte, volontarie ed educatrici shakerasse un aperitivo analcolico dietro le mura stantie di San Vittore.

Photo credit: Marina Lo Russo

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