Food24

Aprire un microbirrificio: come fare e quanto costa

  • Abbonati
  • Accedi
Mestieri del cibo

Aprire un microbirrificio: come fare e quanto costa

Se avete deciso di iniziare la vostra attività di birrai in proprio, sappiate che siete in numerosa compagnia: sono circa 650 i microbirrifici censiti in Italia, di cui circa 200 nati negli ultimi tre anni. La loro produzione media di circa 450-500 ettolitri a birrificio. Un dato che in realtà nasconde differenze enormi: solo 4 o 5 di questi superano i 10mila ettolitri annui, alcune decine i 2.500 ettolitri, un buon numero si colloca entro i 1.000 e 1.500 ettolitri, ma la maggior parte è ben al di sotto di questa cifra. Ma non lasciatevi scoraggiare dalla concorrenza: il consumo di birra in Italia è in costante aumento e ha raggiunto nel 2014 i 17,7 milioni di ettolitri, secondo AssoBirra, con un export di 2 milioni di ettolitri. Senza contare che i gusti dei consumatori si fanno via via più raffinati, alla ricerca di sapori distintivi e prodotti veramente genuini.

Per iniziare servono almeno 200mila euro

«L’investimento iniziale non è poca cosa – spiega Filippo Terzaghi, direttore di AssoBirra – ma ovviamente dipende da che cosa si vuole fare. Fa molta differenza progettare di partire con un’attività che produrrà 1.000 ettolitri oppure 100mila».

Diciamo, però, che difficilmente chi parte comincia con un progetto eccessivamente ambizioso. Anche perché spesso mancano proprio i capitali. Quindi, proviamo a fare i conti con un impianto di piccole dimensioni. «Per l’acquisto dei macchinari – prosegue – è prassi prenderli usati da chi sta rinnovando o ingrandendo le linee. Facendo l’ipotesi di arrivare a produrre entro 2-3 anni circa 1.000 ettolitri, i costi di impiantistica, seppure di seconda mano, si aggirano intorno ai 120-150mila euro. Che chiaramente salgono, se si vuole un impianto personalizzato, produrre subito più tipologie di birra, avere un’imbottigliamento semi-automatizzato… Le variabili sono molte. A questi costi si deve aggiungere un capannone, sui 350 mq, dove collocare l’impianto, supponiamo in affitto, per iniziare. Poi gli allacci, le materie prime, i permessi… Alla fine, al di sotto di 200mila euro è difficile stare».

Più che la meccanica, pesa la burocrazia

Dal punto di vista normativo, non sono richiesti particolari titoli di studio per aprire un birrificio. Basta rispettare le leggi previste per il settore alimentare. «Trattandosi di alimenti – chiarisce Terzaghi – il corpus di leggi non è paragonabile a quello di nessun altro settore, forse solo il farmaceutico. Moltissimi si rivolgono a noi proprio perché hanno difficoltà a stare dietro a tutta l’evoluzione normativa», che va dall’origine degli alimenti, alla salubrità, all’igiene, all’haccp, all’emissione in atmosfera, alla gestione dei sottoprodotti e dei rifiuti, all’etichettatura, alle caratteristiche degli imballaggi, alla data di scadenza e via dicendo. «Senza contare tutti gli orpelli burocratici legati alle accise. In media si deve dedicare almeno un giorno a settimana a tempo pieno più 40 minuti circa ogni giorno solo per ottemperare agli adempimenti burocratici. E per settimana intendo sette giorni, perché nel birrificio si lavora sempre». I tempi per adempiere a tutti i permessi e controlli delle autorità per l’apertura, poi, variano da sei settimane a sei mesi a seconda delle zone d’Italia.

Chi non si distingue ha vita breve

Quando si capisce che ce la si può fare? «Se entro un paio di anni – spiega Terzaghi – si arriva a un ritorno sul capitale investito che permetta di pagare lo stipendio a sé e a un collaboratore, possiamo dire che si è fuori dal guado». Ma è sempre più difficile stabilire un break even: il mercato si fa più competitivo di anno in anno e il consumatore sempre più sofisticato e difficile da fidelizzare. «Per concludere vorrei dare un ultimo avvertimento: non pensate di arricchirvi con i microbirrifici. I margini sul fatturato sono molto limitati. Chi lo fa, lo fa per passione. Questo accade nel nostro Paese come negli Stati Uniti. Le aziende che fanno grandi utili sono quelle che hanno enormi volumi». Con un’offerta così ampia, anche i negozi specializzati hanno imparato a selezionare in modo molto rigido i cosiddetti “nuovi arrivati” e per avere successo è sempre più discriminante presentarsi con prodotti distintivi e qualitativamente impeccabili. Non ci si può improvvisare.

Birroir, quando il birrificio fa rete con l’artigianato locale

Tra chi ce l’ha fatta, unendo passione per la birra all’amore per il territorio, ci sono le proprietarie del Birrificio Birroir di Capannori (Lu), nato grazie alla forte volontà di tre giovani donne: Elena, Elisa e Linda. In nome della loro azienda unisce, appunto, la birra al concetto di terroir: la produzione, realizzata principalmente con le risorse del territorio, è collocata lungo ‘La Via dell’Acqua’ progetto promosso dal Comune di Capannori e dalla Regione Toscana per valorizzare questa risorsa eccellente del territorio. Oltre alla birra, Birroir ha iniziato a stabilire collaborazioni con artigiani locali che valorizzano il prodotto del proprio territorio. Il gelato al gusto Gigliola nato dall’inventiva del mastro gelatiere della Cremeria Opera, originali orecchini realizzati con i tappi a corona Birroir creati dalla Cantina dei Bijoux, bottiglie diventate abat-jour progettate dai ragazzi della Digitec, sono solo alcune delle loro creazioni.

Per i successo serve anche il sostegno locale

Il Birrificio 32 via dei Birrai di  Pederobba, Treviso, invece, punta sul 100% made in Italy. Tra i birrifici artigiani più apprezzati dai sommelier, è nato nel 2006 da Fabiano Toffoli, tecnologo alimentare (tesi di dottorato al Centro di ricerca per la cerealicoltura di Fiorenzuola) italo-belga con alle spalle studi e tirocini in Europa per diventare mastro birraio, Alessandro Zilli, ingegnere prestato all’insegnamento, e Loreno Michielin, professionista della ristorazione. «Abbiamo fondato il nostro sogno – spiega Toffoli – vicino a una fonte purissima: l’acqua è la principale materia prima e la sua qualità è fondamentale, soprattutto quando si comincia e non si hanno i soldi per impianti di purificazione».

Oggi – 3mila ettolitri prodotti all’anno e 2 milioni di euro di fatturato, che cresce di 200mila euro all’anno – producono otto tipi di birra, quattro chiare e quattro speciali, con spezie e senza, ma tutte di alta fermentazione, rifermentate in bottiglia. Le loro miscele sono composte da diverse regioni: malto del Sud Italia, farro biologico toscano… «Il territorio italiano si presta a produzioni estremamente diversificate: ogni provincia italiana ha il suo cereale. Da poco abbiamo anche iniziato la produzione diretta di luppolo, per avere un prodotto che potesse dirsi veramente 100% italiano, dai lieviti alle bottiglie». Il legame con il territorio si trova anche nella birra Nectar, con miele di castagno del Monte Grappa, prodotta una sola volta all’anno.

«Il marchio made in Italy – precisa Toffili – a livello internazionale è uno dei più famosi e funziona moltissimo: noi vogliamo garantire al consumatore il vero made in Italy, dentro e fuori i nostri confini. E’ la nostra garanzia per il futuro, come Paese». Il problema è che senza comunicazione al consumatore, difficilmente lo si troverà disposto a pagare di più seppure per un prodotto di qualità superiore. «Per questo investiamo in certificazioni e marketing. Però, per il nostro successo è stato e continua a essere molto importante – conclude Toffoli – il sostegno della comunità locale, con cui fare rete e da cui essere appoggiati. Senza non si va da nessuna parte, quando si è piccoli».

© Riproduzione riservata