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Azparte, bello come un divo, fiero come un basco, maestro dei…

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Storie di eccellenza

Azparte, bello come un divo, fiero come un basco, maestro dei fornelli

Il fisico – se fosse protagonista di qualche trasmissione in Italia – gli garantirebbe copertine e i favori del pubblico femminile. Solo il nome, Inaki Aizpitarte, potrebbe essere un problema, al di là del tocco esotico che non guasta mai. 43 anni ben portati, francese di origini basche, lo chef-patron del Chateaubriand è passato da Bulgari per un “quattro mani” con Roberto Di Pinto, resident chef della struttura milanese, nel quadro di Epicurea 2015. Per chi lo conosce, è giusto ricordare la sua carriera, decisamente fuori dai canoni della cucina transalpina. Solo a 27 anni, facendo il lavapiatti in un ristorante serbo a Tel Aviv, ha avuto il primo contatto con la cucina, dopo un’adolescenza tra mille lavori (anche il tagliatore di pietre), passioni (aiutava lo zio paesaggista) e studi in enologia. Tornato a Parigi, tira fuori il talento nascosto in locali “di tendenza” come il Café des Delices e La Faille e nel 2005 diventa chef di Transversal, ristorante del museo di arte contemporanea di Virtry-sur-Seine. E’ già noto ma la sliding door della carriera gli si presenta l’anno seguente, sotto forma di un bistrot anni ’30 – Le Chateaubriand – dove va a mangiare per caso. Lo compra con l’amico Frèderic Peneau e sconvolge la scena culinaria della Capitale con la sua cucina istintiva, ben poco francese classica, caratterizzata dal mercato e dall’esperienza fatta più nei lunghi viaggi per il mondo – quasi da vagabondo – che davanti ai fornelli dei ristoranti. Ma ci sa fare, visto che il suo bistrot di Avenue Parmentier 129, si è issato sino al 18° posto della The World’s Best Reastaurants.

Monsieur Aizpitarte, nel 2016, potrà celebrare il primo decennale di Le Chautebriand. Il locale che ha aperto l’era della bistronomie, amata da molti e detestata da altri. Un bilancio?

Il primo pensiero che non mi ero messo in mente di fare “qualcosa” di preciso, acquistando il posto, men che meno fondare la “bistronomie”. In realtà, ho voluto rinnovarla andando al di là della tradizione da una parte e del concetto del secondo locale che da tempo coltivavano i grandi chef . A me non interessavano le stelle Michelin o le copertine ma divertirmi con le mie idee e fare stare bene la gente. E’ andata bene, la clientela è cresciuta insieme a me e aspetta almeno tre settimane per prenotare un tavolo al primo servizio. Dopo le 21.30 invece si può venire senza prenotazione.

Ma è vero che non ama definirlo bistrot?

Sì, perché lo considero un bistrot nell’ambiente e nell’approccio ma in realtà ha un menu da vero ristorante che si è evoluto nel tempo: è solo degustazione, a 70 euro. E’ un “restaurant dans un bistrot”, non una delle vostre osterie dove spesso si mangia benissimo ma i piatti sono tradizionali.

Dauphin, l’altro suo locale parigino, è un bar à tapas altrettanto particolare. 

E’ in pieno sviluppo, sto pensando di semplificare la cucina offrendo tapas tradizionali insieme ai cocktail. Penso sia fondamentale al giorno di oggi non fermarsi mai, aggiornare o cambiare i format. La gente cerca personalità in un locale, perché ce ne sono migliaia uguali tra loro.

Quindi, il nuovo Le Chabanais, a Londra parte con questo concetto?

Io e tre soci abbiamo trovato un posto bellissimo, curato da Clement Blanchet: due piani a Mayfair, con novanta coperti al piano superiore mentre a piano terra ci sarà un cocktail bar. Voglio proporre ovviamente la cucina di Le Chateaubriand ma valorizzando i grandi prodotti inglesi, di cui si parla pochissimo. Grazie ai buoni collegamenti, tra Parigi e Londra mi divertirò a spostarmi…

L’Haute Cuisine è morta secondo lei?

No, resta e resterà importante. Ma si è semplificata, ha cambiato i codici. La gente va di meno in quei locali ma è più competente: so che molti cuochi italiani vorrebbero fare cambio con i francesi, pensando che hanno le sale piene ma è dura anche da noi.

Cosa pensa della cucina italiana?

Quando incontro i vostri cuochi sento fortissimo il peso della tradizione anche negli innovatori ma va benissimo. Da noi è impossibile succeda perché abbiamo una cucina nazionale, ben codificata. Di natura non sono uomo di barriere, quindi ben venga chi difende alla morte il risotto nella ricetta antica e chi lo smonta per proporlo in una versione moderna, Basta sia buono.

Lei sembra seguire un copione molto istintivo tra classicismi, provocazioni e contaminazioni. Citiamo dal menu del “quattro mani” portato a Bulgari: Uova di trota, fegato e mandarino; Risotto di pomelo, zafferano e scampi; Consomme di finocchio e frutto della passione, Animelle tandoori ed erba cipollina. Mont Blanc.

Diciamo che è impossibile per chi lavora a Parigi non farsi coinvolgere dall’atmosfera cosmopolita che si traduce in cucina. Poi, io sono nato viaggiatore e quindi porto in valigia quanto mi piace. E ripeto non ha senso avere barriere, se non quella del buongusto. Quando faccio la spesa e penso al menu del giorno, è la sola cosa che tengo fissa.

La sua opinione sulla nuova cucina nordica? 

Trovo straordinario il lavoro che hanno fatto basandosi sui pochi prodotti del loro territorio, rispetto a Paesi come Italia o Spagna. Una creatività eccezionale e anche messaggi importanti dal punto di vista ambientale e della sostenibilità. Ho mangiato piatti formidabili dai loro migliori cuochi.

Lei è basco di origine. Una delle aree più vivaci dal punto di vista culinario.

Sì e ne sono orgoglioso. Ora che la mia famiglia è tornata a vivere lì, vado a trovarli quando posso e faccio il pieno di emozioni e sapori. I baschi hanno creato una bellissima cucina moderna, di forte identità, utilizzando i vantaggi di un posto unico al mondo. Mi piacciono i baschi, hanno carattere.

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