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Baronetto: "Così porto la nuova cucina nel ristorante di…

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Baronetto: "Così porto la nuova cucina nel ristorante di Cavour"

Mio padre mi ha insegnato che nella vita non si lascia mai nulla in sospeso. Credo di avere imparato la lezione, di aver compreso come bisogna sempre andare in fondo alle cose, nella vita come nel lavoro. Quello di mio padre è un insegnamento che ho fatto mio ed è diventato la traccia su cui costruire il mio percorso. Parte da qui Matteo Baronetto, chef di “Del Cambio” a Torino. Non lo spaventa il peso della storia che grava sulle sue spalle, lui tira dritto per la sua strada. Certo guarda alla tradizione che il ristorante che gli è stato affidato rappresenta, ma fatta salva la tradizione, lui guarda avanti, è orientato al futuro. Al Del Cambio è stata scritta parte della storia d’Italia: a««”«perto dal 1757 ai suoi tavoli hanno mangiato Cavour, Casanova, Puccini, Balzac, Nietzsche, Verdi, Marinetti, D’Annunzio, Eleonora Duse, Maria Callas e Audrey Hepburn, tanto per citare qualcuno dei nomi più famosi, insomma il Del Cambio non è solo un ristorante…

Non le pesa questa responsabilità? L’aria che si respira nei locali in cui vive ed opera?

Certo che pesa la responsabilità. Questo è il posto della tradizione, è un posto in cui si respira la storia, un luogo di cui si raccontano mille aneddoti. Ed io rispetto a questo posto rappresento un granello di sabbia. Tuttavia bisogna avere la forza di mandarlo avanti e per farlo bisogna avere il coraggio di non soffermarsi troppo sul contenitore, ma lavorare e guardare anche al contenuto, ed il contenuto è rappresentato dalle persone che ci sono dentro. Questo è il valore aggiunto che tutti noi, tutta la squadra che lavora qui, sta cercando di dare al ristorante. Io, personalmente cerco di fare il mio mestiere, il mio contributo è quello di tutti i giorni, di una giornata dedicata al lavoro. Sono al ristorante quattordici, quindici ore al giorno. La mia vita è in cucina, io sono sempre qua. Non farebbe alcuna differenza se fossi a New York o in qualunque altro posto al mondo. Io conosco la strada per tornare a casa e quella per venire al lavoro, poco di più.

Ma perché si fanno tanti sacrifici, perché si rinuncia così alla propria vita?

La mia vita è questa e mi piace. Qualcuno la definirebbe passione. Io non so come definirla, ma è quella cosa che ti porta, il giorno del tuo diciottesimo compleanno, ad andare al ristorante a lavorare invece che a fare una festa con gli amici. A me è successo così. E non è stato un sacrifico, ero felice di essere dov’ero. E’ stato così fin dall’inizio da quando da ragazzino ho deciso di andare a fare il cameriere in una pizzeria a due passi da casa, nel mio paese a Giaveno, a pochi chilometri da Torino. Volevo comprare un motorino e volevo guadagnarmi i soldi necessari ad acquistarlo. Poi un giorno il cuoco si è fatto male, giocando a calcetto, e la proprietaria mi chiese se avessi voglia di darle una mano in cucina. Io non sapevo far nulla, così cominciai con il lavare i piatti e le stoviglie. Poi pian piano mi sono avvicinato ai fornelli, ho cominciato con i piatti tipici di una pizzeria, qualche frittura, qualche semplice piatto di pasta. Ma lì ho capito che ciò che avrei voluto fare davvero era cucinare.

Cosa ha fatto scattare la scintilla? Cos’è che aveva capito?

Ho compreso che cucinando potevo trasmettere ad altri dei pensieri, delle emozioni. Ho percepito quanto fosse stretto il legame tra chi prepara un piatto e chi quel piatto lo consuma. Allora avevo solo quattordici anni, ma quel pensiero si è fatto talmente strada dentro di me che mi ha sempre accompagnato, è quel pensiero che alimenta la mia passione, che mi fa fare quello che faccio con sempre maggior entusiasmo. Ma allora, quando avevo solo quattordici anni, quell’idea mi portò a cambiare la direzione della mia vita, a cominciare dai miei studi. Mi ero iscritto a Ragioneria, passai a frequentare l’Istituto alberghiero. E mentre studiavo continuavo a lavorare. A due passi da casa c’era un ristorante stellato. Si chiamava La Betulla. E’ stata quella la mia vera scuola. Quando rientravo verso casa, il pomeriggio, scendevo dal pullman ed andavo direttamente lì. Quel posto è stato una palestra straordinaria che mi ha permesso di applicare ciò che apprendevo sui banchi. Mi dava il senso profondo della realtà. Ma anche la scuola fu determinante nel mio percorso di vita. Anche perché è lì che ho incontrato la persona che ha stimolato ancora di più la mia crescita.

Si trattava di uno dei suoi insegnanti?

Sì. Uno dei più esigenti e rigorosi, ma anche capace di riconoscere tra noi quelli che avevano voglia di guardare alla professione con occhi diversi. Lui comprese subito le mie inclinazioni. Mi esortò a fare di più e a fare meglio. Mi disse che conosceva un sommelier che lavorava da Gualtiero Marchesi, che magari avrebbe potuto farmi fare uno stage nella cucina di quel grande chef. Lo chiamò per me. Il sommelier mi suggerì di parlare con lo chef responsabile, quello chef si chiamava Carlo Cracco. Fu così che mi trovai alla sua corte, proprio perché in quel periodo Cracco lavorava per Marchesi. Quando poi decise di aprire il suo ristorante vicino ad Alba mi volle con lui e con lui sono stato anche a Milano, fino al 2013. Sono stati anni importanti anni in cui ho imparato tanto, in cui ho avuto un confronto diretto con il mondo della gastronomia che conta davvero e che non hanno fatto altro che rendermi ancor più consapevole della mia scelta.

Perché l’arrivo al Del Cambio?

Erano un paio d’anni che pensavo di voler fare qualcosa per me, qualcosa di cui potessi essere l’interprete principale. Ci siamo incontrati per una casualità, per fortuna e destino. Qui c’era bisogno di una persona di carattere che potesse prendere in mano la sfida che la proprietà stava costruendo. Io, al tempo stesso, avevo bisogno di trovare una mia dimensione personale. In questo ristorante, tra l’altro avevo già fatto uno stage nel ’92, per cui, per me, in realtà si è trattato di un ritorno. Sono piemontese, ed anche per me questo posto, come per molti miei conterranei rappresenta un simbolo, rappresenta un’icona di quello che siamo, interpreta in qualche modo un ponte che unisce il nostro passato con il nostro futuro, passando per ciò che siamo oggi. Quando sono arrivato la ristrutturazione dei locali era già in corso, per larga parte era gia stata completata, mancavano le cucine però. Su quelle mi hanno lasciato la possibilità di intervenire, di studiare qualcosa che fosse funzionale alle mie necessità. La cucina per un cuoco è come se fosse un vestito su misura: ognuno di noi ha il suo carattere, la sua impronta professionale. Non sarebbe giusto avere un cliché, che fossero tutte uguali. La mia scelta, per questo, è caduta su una cucina artigianale francese, dello stesso tipo di quella che ha Cracco o lo stesso Crippa. Sono strutture modulari che partono dall’idea di riempire lo spazio, funzionalmente alle necessità di chi le utilizzerà.

Ed è stato questo il cambiamento principale, lavorare fin dall’inizio sul progetto di realizzazione del nuovo ristorante?

Il progetto più importante che avevo in mente era il mio. Se avessi voluto continuare a fare lo chef sarei potuto restare dov’ero. La mia idea era invece quella di entrare dalla porta principale nel mondo dell’impresa gastronomica e volevo farlo da protagonista. E’ per questo motivo che la mia prima richiesta è stata quella di chiedere alla proprietà di poter far parte dei soci. Loro hanno accettato di buon grado, capendo quali fossero le mie esigenze. Io sono convinto che oggi il cuoco pur non smettendo di fare il cuoco, deve avere una forte vocazione e capacità imprenditoriale o manageriale che sia. Se così non fosse dovrebbe comunque avere qualcuno che lo faccia per lui. Anche gli chef d’albergo sono sempre più sensibili a certe cose, in linea alla velocità con cui il nostro mondo sta cambiando. Non è più il tempo del ristorante di famiglia, da aprire così su due piedi, dalla sera alla mattina. Oggi i rischi sono molto più grossi. Ci vuole progettazione, ci vogliono delle basi che abbiano sostanza economica e capacità di sviluppo nel tempo. Non è un caso che nascano delle scuole per chef dove gli aspetti manageriali vengono approfonditi.

Nel 2014 è arrivata la prima stella Michelin…

Ho visto in questo premio la consapevolezza che questo è un luogo che merita attenzione e che cerca di fare della qualità e quindi per me questo riconoscimento rappresenta un onore. Rappresenta un premio per tutta la squadra, nessuno escluso, perché Matteo Baronetto, senza tutti gli altri non potrebbe far nulla, da chi lavora in cucina a chi lavora in ufficio occupandosi di marketing o di comunicazione. La stella, un po’ come per i navigatori ci indica la strada, ci indica che l’entusiasmo che stiamo profondendo nella nostra attività è quello giusto, che la strada intrapresa è quella giusta.

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