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Dopo il via libera alla pajata, ecco i grandi chef della cucina plebea

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Dopo il via libera alla pajata, ecco i grandi chef della cucina plebea

Bruxelles riporta in tavola la pajata, piatto grintoso della tradizione romana insieme a trippa, rognoni, cuore, fegato, milza, animelle, schienali, cervello, lingua, zampe e nervetti: risorge tutta la cucina del quinto quarto. Esultano le trattorie romane di Testaccio (Checchino è lì, su Monte dei Cocci, dal 1887), ma anche quei ristoranti italiani in cui ritagli, rigaglie e frattaglie sono protagonisti veraci.

 Intestini di vitello,  mai più clandestini

Abolita a seguito delle misure di prevenzione e controllo della Bse (encefalopatia spongiforme bovina, 144 casi in Italia fino al 2009), dopo 14 anni di proibizionismo, la pajata torna in cucina grazie al Comitato permanente vegetali, animali, derrate alimentari e mangimi dell’Unione Europea che ha votato a favore della modifica del regolamento comunitario n. 999/2001 sulle. Una decisione che  cambia l’elenco degli organi a rischio degli animali e consente di recuperare la colonna vertebrale ma, soprattutto, l’intero pacchetto intestinale, in particolare la prima parte dell’intestino tenue del vitello da latte che è stato fino a oggi sostituito nei ristoranti e nelle trattorie dall’ intestino d’agnello (o servito in gran segreto come piatto clandestino). Secondo Coldiretti  è “un risultato importante per consumatori, ristoratori, cuochi, macellatori e allevatori che oltre ad avere rilevanza sul piano gastronomico ha anche effetti su quello economico con la valorizzazione dell’allevamento italiano in un difficile momento di crisi”.

I grandi chef della cucina plebea

Da chef Rubio, che inneggia al “quarume” palermitano (diversi pezzi di frattaglie bolliti insieme) e alla trippa alla romana,  a Luca Cai con il suo quinto quarto in gelatina di agrumi (o riso cavolo e lampredotto in kimono), fino a Igles Corelli con il risotto con carne e frattaglie servite con pop-corn di cotenna e allo svedese Magnus Nilsson (rinomate le sue tartine di midollo e cuore di bue crudo con germogli d’orzo) è tutto un rifiorire di cucina plebea. Carlo Cracco si fa ispirare dalle frattaglie per piatti insuperabili (ostrica e rognone), come lo spagnolo Joan Roca che le prepara stufate nel suo elaborato “plantillo de menuts”. Nel “caldume” di Ciccio Sultano ci sono cartilagini, lingua e cuore, nella “transumanza marina”, totano e polmone di agnello. Ma il quinto quarto non è solo made in Italy: i  tagli poveri sono molto apprezzati nella cucina orientale. In Corea si prepara  il “soondae”, piatto tipico a base di interiora bollite di bovino e suino, servite con noodles e orzo. A Manhattan lo chef Nick Anderer  propone la pizza con la trippa al pomodoro, peperoncino rosso, pecorino e menta.

La pajata che verrà di Cristina Bowerman

“Da bambina preparavo a casa i turcinieddi con fegato e intestini. Oggi i piatti di quinto quarto sono pezzi importanti del mio menù, quelli che mi legano alle mie tradizioni pugliesi e ai sapori più intensi della romanità”. Nelle mani di Cristina Bowerman, chef stellata di Glass Hostaria, a Roma,  la lingua di vitello marinata con zucchero di palma, sale rosa, zenzero,  spezie tostate, pepe nero, peperoncino, chiodi di garofano, semi di mostarda, coriandolo, ginepro, è diventata un indimenticabile panino al pastrami: premiato nel 2013 come panino dell’anno, è oggi il piatto forte di Romeo, locale contemporaneo aperto dalla Bowerman insieme ai fratelli Roscioli: un forno-ristorante munito di aperto street food. Ma è nella cucina dell’osteria trasteverina che cuori, rognoni e animelle diventano creazioni gastronomiche: cuore di manzo con purè di patate affumicate, salsa di habanero e maionese di caffè , cuore d’anatra crudo, marinato nello zibibbo e servito con frutti di bosco, animelle glassate ai datteri, brodo di tuberi, broccoli e tartufo bianchetto. In attesa che la pajata sia disponibile sul mercato (tra due settimane, non appena il nuovo regolamento sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale), la chef di Cerignola (laurea in Giurisprudenza, stage negli Stati Uniti, studio di grafica in Texas e laurea in Culinary Arts al Cordon Bleu di Austin dove ha aperto il suo primo locale) già studia cotture e abbinamenti per farne il prossimo must di Glass Hostaria.

Kermesse e street food del quinto quarto

“Quinto Quarto” a Gubbio è una kermesse gastronomica dedicata alle ricette con tagli poveri del vitellone bianco dell’Appennino centrale. Si svolge nel centro storico tra vecchie stalle  e antiche taverne, con degustazioni gratuite e continuative. La seconda edizione (promossa da Confcommercio e Gal- Gruppo di azione locale) sarà inaugurata a ottobre. Lo scorso anno Vetrina Toscana (progetto di promozione di Regione e Unioncamere ) ha organizzato sulla spiaggia sull’Arno, di fronte alla torre San Niccolò in Piazza Poggi, il festival “Visti da dentro”, due giorni di show cooking  per celebrare  trippe e altre frattaglie con le ricette della tradizione fino alle rielaborazioni più creative. Si è in attesa delle prossime date. Intanto il classico street food fiorentino fa furore sui banchini dei trippai: il panino con il lampredotto (“gala” e “spannocchia”, stomaco del bovino) è un’istituzione per turisti e residenti. Si serve asciutto con sale e pepe, con salsa verde oppure olio piccante. Ma tuffando la calotta superiore del panino (lo chiamano “semelle”) nel sugo del pentolone sarà tutta un’altra storia. A Palermo, invece,  capitale europea del cibo di strada,  al quinto posto nel mondo, secondo la rivista americana Forbes, dopo Bangkok, Singapore, Penang e Marrakech, non tramonta il leggendario pani câ meusa: milza (e qualche volta polmone) di vitello lessata e ripassata nella sugna e condita con ricotta salata.  Nella tradizione padana (e non solo) il quinto quarto è di maiale: a Isola Dovarese , in provincia di Cremona, si festeggia il Carnevale con frattaglie,fegato, cuore, piedi, cotiche, lingua, reni cucinati in piazza, mentre a Bergamo Alta, nell’Osteria di via Solata la coda di manzo viene servita con insalatina di germogli  e petali di fiori, la lingua con gelato al cetriolo ed extravergine calabrese.

Il piatto povero degli scortichini romani

In origine pajata e ritagli costituivano a Roma  il piatto  degli “scortichini”, gli operai del  mattatoio di Testaccio: la loro paga giornaliera era di un soldo più un sacchetto contenente gli scarti delle carni macellate (interiora, zampe, lingua).  Gli osti del rione li trasformavano in pietanze caserecce con cui gli operai potevano sfamare le famiglie. Ma le frattaglie diventano presto  un piatto gourmet da dopoteatro: all’uscita del Valle andavano tutti a mangiare trippa e cervello di agnello al Falcone, in piazza Sant’Eustachio, antica trattoria citata dal Belli nei suoi sonetti. Lo scrive nel 1841 l’erudito viaggiatore Antoine Claude Pasquin (noto con lo pseudonimo Valery) in “L’Italie confortable”.  Una Roma sparita in cui gli abitanti dei rioni si distinguevano con il nome delle interiora: “ I Trasteverini erano chiamati Magnaventricelli, quelli che popolavano la zona vicino al Tevere erano Magnafritto e Corata, i Regolanti, insediati nel rione Regola di fronte a Trastevere, sulla riva sinistra del fiume, erano canzonati come Magnacode, riconoscendo loro la priorità sull’usanza di cucinare la coda”, racconta Lejla Mancusi Sorrentino nel libro “Er mejo de la cucina romana”.

Rigatoni con la pajata, la vera ricetta di  Testaccio

E’ a quei tempi che Checchino a Testaccio si trasforma da mescita in osteria con cucina. Francesco Mariani e suoi fratelli oggi sono la quinta generazione a condurre l’azienda di famiglia. Aspettano solo che la pajata sia reperibile: tutto è pronto per inserire nuovamente nel menù il vero arrosto misto di interiora  e i rigatoni con la pajata che, nel tempio della cucina romana, si cucinano rispettando fedelmente la tradizione. Questa è la loro ricetta, invariata dal 1877: tagliate a pezzi di circa 20 cm l’ intestino digiuno del vitello e legatelo formando delle ciambelle. In un tegame dal fondo alto mettete l’ olio, il battuto di lardo e la pajata e lasciate rosolare a fiamma alta. Aggiungete la cipolla tritata, uno spicchio d’ aglio, il sale, il pepe, qualche chiodo di garofano e il vino bianco. Coprite il tegame e lasciate cuocere, girando di tanto in tanto la pajata, Quando il vino si sarà asciugato, aggiungete i pomodori pelati e la conserva di pomodoro e lasciate cuocere con il coperchio per circa tre ore. Poi preparate i rigatoni, scolateli al dente e completate la cottura in una padella, aggiungendo il sugo e il pecorino romano grattugiato.

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