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È la Bistronomie bellezza... Inaki e i bucanieri della tavola…

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È la Bistronomie bellezza... Inaki e i bucanieri della tavola parigina

Qualche anno fa chiedemmo ad un ancora poco conosciuto Inaki Aizpitarte una ricetta che riflettesse la sua filosofia di cucina. Ci mandò per fax un foglio scritto a mano, con le parole in blu elettrico che si rimpicciolivano e salivano lungo i margini per farci stare tutto; si parlava di un’ostrica servita con rapa rossa, ribes, lamponi e “del comunissimo, molto chimico sciroppo industriale di granatina”. Sembrava una follia, ma di quella per luogo comune cammina sempre a braccetto con la parola “genio”.

E infatti oggi vi sfidiamo a googolare il nome di Inaki e a non trovarlo associato a questo epiteto.

Formatosi tra Tel Aviv, Sud America e Francia, lo chef autodidatta di origini basche con il suo Le Chateaubriand in Avenue Parmentier a Parigi si piazza al 18° posto nella lista “The World’s 50 Best Restaurants”. È la più ambita classifica del fine dining, e tra i ristoranti di gran lusso figura appunto il suo, uno spartano bistrot color crema degli anni ’20, con nudi tavolini grandi come una scacchiera, la cantina accessibile da una botola posta dietro il banco del bar, e un menu fisso di una dozzina di portate a 60 euro (+ 60 per l’accord mets et vins, che sarebbe un delitto non provare). Non c’è imprenditore dell’alta ristorazione che non investirebbe su di lui e non gli appronterebbe un locale su misura assecondandone le fantasie più sfrenate. Ma a tutti Inaki continua a rispondere che la misura che gli piace è “parva sed apta mihi”: se ne resta nel suo bistrot, correndo avanti e indietro tra la minuscola cucina in cui dirige giovanissimi cuochi pigiati come sardine, e il tapas bar Le Dauphin che ha aperto subito accanto.

Il gioco delle prenotazioni è tutto particolare: puoi telefonare solo a partire da 14 giorni prima della data della cena (certifichiamo che 15 non va bene: richiamare il giorno dopo), ma solo tra le 15 e le 19.30; la fascia oraria prenotabile è quella delle 19.30; la seconda, che parte alle 21.30, è per chi passa di persona. Aperto solo la sera, chiuso la domenica e il lunedì.

È la bistronomie, bellezza: mi-gastro/mi-bistrot, ed è con questa corrente dai modi un po’ bucanieri che la scena internazionale deve fare i conti. Affermatasi a Parigi sei-sette anni fa grazie a Aizpitarte e al suo primo ispiratore Yves Camdeborde (che qualcuno considera un “venduto” da quando è entrato nella giuria dell’edizione francese di Masterchef), la bistronomia conta oggi tra le sue fila alcuni degli chef più interessanti dell’Esagono.

In comune hanno l’età (più vicina ai 30 che ai 40 anni), ristoranti di proprietà volutamente semplici nel mood, che puntano alla trasparenza tra cucina e sala, con pochi coperti, l’attenzione tutta concentrata sulla qualità degli ingredienti e l’inventiva con cui vengono assemblati.

“Meno tavoli, più considerazione per ciascun cliente” afferma Akrame Benallal, l’elegantone del gruppo (il suo Akrame a due isolati dall’Arco di Trionfo, che si distingue per i cristalli di design e i tavolini in pietra, dà sul mineral chic).

Gli altri nomi: Stéphan Jego di L’Ami Jean, Gregory Marchand di Frenchie, Daniel Rose di Spring, Sven Chartier di Saturne, Cyril Bordarier di Verre Volé, Bertrand Grébaut di Septime, Bruno Verjus di Table, Pierre Jancou di Vivant.

La stella Michelin è un traguardo per questi chef che si ritrovano sotto l’ombrello di Le Fooding, la guida alternativa nata proprio per gli amanti della cucina moderna e informale? Jego la rifiuta e si dice che butti fuori gli ispettori; Marchand ha dichiarato: “Sarebbe ottima per il mio ego, ma pessima per il mio business. Portrebbe il tipo di clientela che potrebbe non capire la mia sensibilità”. Quando abbiamo detto al maître di Aizpitarte che avevamo mangiato meglio da lui che in qualsiasi ristorante tristellato, il ragazzo (lo staff è tutto giovanissimo) ha lasciato cadere la mascella e con gli occhi lucidi ha chiesto: “Davvero?”.

Ma le stelle della guida rossa arrivano lo stesso, se l’ambiente lo permette appena: Akrame e YamT’cha, dove si cena senza stare gomito a gomito con i vicini e senza dover alzare la voce per farsi sentire dai propri commensali, hanno il loro bravo “macaron”.

YamT’cha, in particolare, è l’indirizzo du jour: qui Adeline Grattard fa dell’autentica fusion, frutto della formazione presso il Bo Innovation di Alvin Leung a Honk Kong e del sodalizio con il marito Chi Wah Chan, esperto di tè e autore, con la moglie, del menu tutto studiato sulle associazioni tra infusi e pietanze franco-cantonesi. Dalla sua cucina così piccola da sembrare un giocattolo, la bionda Adeline ha già raggiunto e dà del filo da torcere alle colleghe più scafate e rinomate Hélène Darroze e Anne-Sophie Pic.

E la clientela più branché apprezza.

Non si vede dappertutto Natalie Portman che si stringe con il marito Benjamin Millepied a un tavolino di corridoio, con il figlioletto di due anni visibilmente stanco, tenuto in braccio e distratto con un iPad. Mangiare con una mano e con l’altra fare il solletico al bambino abbarbicato sul collo, il sabato sera alle 10? Pur di mangiare chez Inaki, si può.

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