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Energia, agroalimetare, Ict: call for ideas per gli innovatori del Sud

“Breaking rules and taking risks” Rischiare andando oltre le regole, le consuetudini, la rassegnazione. In una sola parola: innovare. E’ il cuore della filosofia imprenditoriale di Mimmo Costanzo, imprenditore catanese, fondatore e amministratore di Cogipower e di Tecnis, colosso delle costruzioni con decine di grandi cantieri in Italia e qualcuno anche all’estero. Una filosofia applicata all’azienda con aperture al mondo, al sociale, ai nuovi fenomeni, alle nuove imprese. Con iniziative che fanno perno sul merito, discriminante assoluta in un’area del Paese, come il Mezzogiorno e in particolare la Sicilia, in cui sembra esserci un’alleanza costante per costruire quelle che l’economista catanese Elita Schillaci con una felice definizione ha chiamato le “catene del demerito”.

Con la Fondazione del merito, creata qualche anno fa, Costanzo ha lanciato quest’estate la “call for ideas” nell’ambito del progetto “Power2Innovate” e in collaborazione con The European House-Ambrosetti, per chiamare a raccolta le migliori energie del Mezzogiorno, concentrando l’attenzione su tre temi: energia, agro-alimentare e ICT. Una Call for Ideas, che si chiude il 31 ottobre, per individuare le migliori idee imprenditoriali in quelli che sono ritenuti settori chiave per lo sviluppo del Sud: ai tre vincitori andrà un premio di diecimila euro, con la partecipazione al programma 2016 “Leader del Futuro” di The European House-Ambrosetti e il mentoring dei manager Cogipower.

Mimmo Costanzo

Qual è oggi il senso della parola innovazione?

In Italia l’innovazione è tra gli argomenti più “caldi” degli ultimi anni, a tal punto che però si rischia di perdere i contorni del fenomeno, etichettando ogni “novità” come innovazione. Per parlare dell’innovazione a me piace ricordare come la definiscono gli americani: breaking rules and taking risks. Non c’è innovazione senza la capacità di andare oltre le regole e, quindi, assumersi dei rischi. Innovare in azienda e nelle istituzioni significa introdurre nuovi prodotti e servizi, nonché nuovi metodi per produrli e renderli disponibili agli utilizzatori. Qui sta la capacità di rompere le regole.

Quali sono i problemi che impediscono la diffusione dell’innovazione nelle imprese italiane?

Sono soprattutto tre. Una riguarda i metodi statistici secondo cui l’innovazione viene fotografata, che rispondono più a canoni tedeschi e francesi e minimizzano le modalità italiane. I criteri, infatti, privilegiano i grandi aggregati di prodotti innovativi e sottovalutano l’innovazione di processo, in cui invece noi italiani siamo più forti. Non si spiegherebbe altrimenti la crescita dell’export delle nostre industrie, circa un terzo delle quali hanno meno di dieci dipendenti.

Il secondo problema riguarda proprio la dimensione aziendale: una percentuale elevata delle imprese è troppo piccola per investire in innovazione; servirebbero degli incentivi dagli altri attori di mercato: il sistema bancario deve premiare chi innova e incentivare chi non lo fa, scegliendo l’innovazione come uno dei paradigmi di valutazione. La politica, dal suo canto, deve premiare chi innova nelle aziende con incentivi e sgravi fiscali.

Inoltre, l’ultimo problema è la mancanza di “dialogo” tra le grandi imprese e le piccole. Le prime, che sono quelle che fanno soprattutto innovazione tecnologica, devono diventare “abilitanti” nei confronti delle altre facendosi carico del ruolo di driver dell’innovazione. Le grandi imprese, nonostante i ritardi storici della Pa, il digital divide e tutti i problemi burocratici, ecc., devono inventarsi strategie di crescita nelle piccole imprese, moltiplicando l’offerta produttiva che offrono ai propri clienti. Ciò gioverà a loro nello sviluppo economico, ma allo stesso tempo contribuirà alla diffusione abilitante anche per le Pmi. Spesso la politica, anziché incentivarle, mette loro i bastoni tra le ruote, purtroppo. I grandi moltiplicatori di innovazione tecnologica dovrebbero essere lasciati liberi di correre, anziché essere tartassati e frenati.

Parliamo di Power2Innovate: cos’è in concreto, quali obiettivi persegue?

Questo progetto è partito da un concetto più volte espresso da Ambrosetti e in particolare di Valerio De Molli e cioè che se non ci sono imprese e dunque imprenditori, non c’è crescita né futuro. Come? Creando lavoro, aiutando i giovani a creare lavoro e non rassegnarsi alla logica del “cercare lavoro”. Così abbiamo deciso di dare voce alle molte energie che danno valore al Sud: perché vediamo tanti imprenditori mancati e vorremmo che sempre più riuscissero a raggiungere il loro sogno. Che poi, è il sogno di tutti: dare un contributo a far ripartire l’economia. Il nostro progetto vuole chiamare a raccolta le energie giovanili migliori del Mezzogiorno appassionate di innovazione, concentrando l’attenzione su tre temi: energia, agro-alimentare e Ict. La prima Call for Ideas di Power2Innovate si rivolge a giovani aspiranti imprenditori o gruppi con meno di 35 anni e residenti prevalentemente nel Sud Italia. Cerchiamo progetti innovativi che abbiano un forte impatto sociale e contribuiscano allo sviluppo e al benessere civile ed economico delle regioni del Sud Italia. Crediamo nel forte valore economico e sociale dell’imprenditoria e per questo vogliamo sostenerla e incentivarla proprio in un momento in cui il divario tra nord e sud è sempre più evidente.

Lei sembra animato da quello che potremmo definire l’ottimismo della volontà (la ragione soprattutto oggi ci porterebbe verso il pessimismo) ma è davvero convinto che l’innovazione oggi possa essere il punto di svolta per l’economia del Sud?

La mia fiducia estrema nel Sud, nelle sue risorse e nella sua capacità di rilancio in questo preciso momento storico sono fondate sulla convinzione che le condizioni economiche, sociali e talvolta anche culturali che lo hanno appesantito per secoli sono quelle che oggi stanno lasciando il posto a nuove necessità. Fino ad oggi abbiamo vissuto un’epoca in cui l’economia si muoveva secondo meccanismi top down, ovvero calati dall’alto: i grandi investitori sceglievano dei settori ritenuti strategici e concentravano la produzione, spingendo sulla commercializzazione del prodotto. Oggi questo modello economico, come hanno dimostrato ampiamente i numeri e le vicende, non regge più. L’economia si muove verso un modello bottom up, che trova origine nelle spinte dal basso: un modello secondo cui l’idea imprenditoriale nasce dalla rilevazione e dallo studio di una necessità, un problema, una mancanza reale. Ecco l’opportunità: dove manca qualcosa e il processo non scorre fluido, lì il nuovo imprenditore costruisce un’idea e la rende prodotto.
Basta pensare alle più grandi idee degli ultimi anni: celebre il caso Uber, che nato per risolvere necessità globali di una mobilità efficace e a basso costo, ha con la forza della sua efficacia scardinato dei modelli esistenti da decenni; o ancora il settore dell’energia, in cui le necessità energetiche di ogni utente sono diventate caso di studio particolare per chi vuole fare impresa. O ancora al settore dell’agroalimentare, dove sono sorte moltissime startup che si occupano, ad esempio, di food sharing.

E quali sarebbero le caratteristiche di questi nuovi soggetti economici?

Semplice dirlo, perché sono proprio quelle che caratterizzano le startup: prima che la specializzazione, la capacità di essere dei problem solver. Non si tratta di una competenza specifica, ma di un approccio con cui si affrontano tutte le sfide, personali e professionali, in cui ci imbattiamo. Significa saper passare dal problema alla soluzione perché la crisi è sentita come un’opportunità. Questo approccio ci consente di superare ostacoli con tenacia e passione. Altro requisito importante sono le soft skills, ovvero quelle competenze gestionali e manageriali come le leadership, la capacità di teamworking, la capacità di pianificazione e di delega, le possibilità di comunicazione, la pianificazione del tempo e dei risultati. E ancora la capacità di essere sartoriali: l’impresa che innova è un’impresa che sa fare fronte a proposte tagliate su misura per i suoi clienti.

Se guardiamo al Sud secondo questo nuovo modello di economia di cui parla lei non vediamo certo segnali positivi.

Non è così. Credo che il Mezzogiorno, proprio per le difficoltà in cui si è dibattuto e continua a dibattersi, abbia accumulato queste capacità in maniera naturale ed efficace: lo vedo nella passione e nella fame di conoscenza che i nostri giovani dimostrano, nella creatività che da sempre ci contraddistingue, nella tenacia e nella disponibilità a confrontarsi con i temi del sociale come momenti importanti per la comunità.

Questa nuova economia è quella che può aprire una nuova fase per il Sud. Il sud ce la può fare: vedo tanti giovani che con passione e impegno studiano, innovano, azzardano. È come se il Sud fosse un concentrato di lievito incredibile, ma, ahimè, troppo spesso è mancata la farina: ovvero quelle condizioni attraverso cui agire per rendere le potenzialità delle risorse concrete. Purtroppo molto spesso le buone idee, anche quando ci sono, devono confrontarsi con la scarsità di capitali. Ci sono però migliaia di piccole aziende poco visibili e conosciute, ma che hanno investito in innovazione e ristrutturazione dei processi aziendali. In Sicilia turismo e hi-tech si confermano come i settori trainanti dell’economia, perché partendo da esigenze reali dei consumatori, hanno saputo reinventare nuovi linguaggi e nuove proposte commerciali, rivolgendosi al mercato globale che può rispondere alle loro offerte.

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