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Grani, mandorle, limoni: la riscossa della Sicilia agricola parte dalla Val di Noto

In un vecchio granaio di Marianelli, in dialetto siciliano Marianeddi, 150 ettari suddivisi in riserva marina vincolata e 75 ingialliti di campi di grano autoctono appena falciato, un gruppo di ragazzi ha appena inaugurato lo spaccio che venderà i prodotti della madre terra siciliana. Siamo tra Noto e Pachino, l’ultimo lembo del Continente europeo sospeso tra il Canale di Sicilia e l’Africa.
Sebastiano e Viviana Falesi, insieme con Eva Perricone, hanno comprato pezzo su pezzo una trentina di ettari da un vecchio proprietario terriero. Sebastiano, un ingegnere chimico con la passione della terra, si è dedicato a far rivivere la produzione di grani antichi siciliani, Russello e Tumminia, meno produttivi di quelli tradizionali, ma con una quotazione doppia e non dipendenti da pesticidi e fertilizzanti. In più, il fusto, che qui chiamano paglia, si rivende con un discreto margine agli allevatori che producono formaggi e carne bio. La proprietà dei Falesi e della Perricone confina con la spiaggia selvaggia di Marinelli, in piena riserva di Vendicari, circondata da ettari su ettari di mandorle e di limoni della cultivar Femminello, una qualità diffusa nel siracusano che quest’anno ha ottenuto valori record (70/80 centesimi al chilogrammo contro i 25 dell’anno scorso) per il calo produttivo in Grecia e Spagna.

La riscossa della Sicilia agricola

La riscossa della Sicilia agricola origina da queste campagna affacciata sul mare seminata di innovazione e flagellata da un caporalato endemico. Alcune produzioni storiche, come il pomodoro ciliegino e le arance della Piana di Catania, sono in conclamata difficoltà, ma la linea di tendenza sembra ormai tracciata. «Dopo anni di stagnazione, il mercato finalmente ci riconosce una qualità difficilmente eguagliabile» dice l’avolese Felice Nastasi, discendente di un’azienda fondata nel 1928. Ad Avola si approvvigionano i buyer della Ferrero e delle gelaterie Grom. Nastasi, ultimo erede della famiglia di commercianti avolesi, ammette che le quotazioni delle mandorle – le cultivar più diffuse sono la Romana, ottima per la pasticceria, la Pizzuta e la Fascionella – sono state spinte al rialzo dalla siccità che ha colpito la California, primo produttore al mondo. Spiega l’imprenditore: «La quota della Sicilia sul mercato globale è appena del 7%, ma oltre a incorporare qualità organolettiche uniche il nostro prodotto è immune dalla presenza di aflatossine (muffe cancerogene, ndr)».

Un lento addio alle mandorle

Le mandorle, il simbolo stesso della Sicilia, scontano anni di quotazioni basse che poi hanno originato la corsa all’espianto. Con un doppio danno: per la coltura in sé e per il paesaggio isolano. L’agronomo Carlo Assenza, proprietario con il fratello Corrado, pasticcere, del caffè Sicilia di Noto, è continuamente alla ricerca di mandorle della qualità Romana. Il suo racconto non è per nulla entusiasmante. «Adesso va meglio che in passato, ma molti produttori preferiscono reimpiantare qualità alloctone che hanno il non trascurabile svantaggio di assorbire notevoli quantità d’acqua». L’impoverimento della coltura si evince dai numeri. Dice Assenza: «Nel 1920 in provincia di Siracusa c’erano 180mila ettari coltivati a mandorlo, adesso siamo precipitati a poco più di 3mila, passando dai quasi 16mila del ’95».

Il recupero dei grani antichi

Una strage silenziosa, dalla quale la Sicilia si sta riprendendo a piccoli passi. Le ferite inferte dallo sradicamento dei mandorleti sono state ricompensate in parte dalla semina delle varietà autoctone di grano. «La stella polare sono i nuovi consumatori, sempre più avidi di informazioni sulla materia prima» dice Franco Vescera, un pugliese-brianzolo finito in Sicilia per predicare la qualità dei grani antichi che trasforma nelle sue aziende di Carlentini e Villasmundo. Spiega: «La produzione di pane e pasta si è decuplicata in pochi anni. La qualità? Io non la decanto. Mi limito a far assaggiare il nostro pane: profumo e sapore non si dimenticano più».

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