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Il ritorno di Pierangelini in Toscana. Versione bistrot

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Il ritorno di Pierangelini in Toscana. Versione bistrot

Non c’è gourmet che non pianga la demise del Gambero Rosso di San Vincenzo, considerato per anni il migliore ristorante italiano e tra i top del mondo fino all’uscita del suo chef patron Fulvio Pierangelini nel 2008 e alla sua definitiva chiusura nel 2009.

“Il grande solista della cucina italiana”, come lo definisce un libro di Raffaella Prandi a lui dedicato, dopo aver passato 30 anni chiuso nella sua cucina affacciata sul Tirreno – raramente si allontanava per eventi speciali, e se lo faceva serrava del tutto ristorante – ha cambiato radicalmente stile di vita diventando consulente del gruppo Rocco Forte Hotels. Ora è sempre in viaggio, fermandosi due-tre giorni per volta negli otto alberghi di cui sovrintende i menu: per rinnovare l’offerta, e soprattutto controllare che tutto proceda secondo le sue istruzioni.

«Do poca libertà ai cuochi: vedo se seguono le mie ricette, se viene a mancare la coesione stilistica… sorveglio che non si inneschi la naturale deriva fisiologica», spiega lo chef. «Non essendo sempre presente non posso dare l’emozione delle mie mani, ma la tecnica, la ricetta, la scelta degli ingredienti sì: sono pagato per fare questo lavoro e devo farlo al meglio. Soprattutto con Irene».

Irene non è una cuoca ribelle agli insegnamenti del maestro, anche se così sembrerebbe dalla chiosa di Pierangelini. Si tratta invece del ristorante del Savoy di Firenze che prende il nome dalla moglie di Lord Charles Forte e madre di Sir Rocco, e che si affaccia con un gradevolissimo dehors sul lato più soleggiato di Piazza della Repubblica.

Perché Pierangelini ci tiene in modo particolare? «Perché è il mio ritorno in Toscana, e perché l’executive chef ce l’ho messo io, l’ho sgridato anche ieri sera, seppure per quella che molti definirebbero una sciocchezza. Il problema di fondo della ristorazione è che noi cuochi ci sentiamo tutti compositori, quando siamo invece degli esecutori. Le grandi idee geniali sono rare, le esecuzioni nel frattempo devono essere perfette: meglio una sogliola alla mugnaia ineccepibile di una sogliola al cioccolato. Bernstein, che era sia compositore che esecutore, diceva che prima di poter eseguire un pezzo lo studiava instancabilmente per penetrarlo a fondo. Allo stesso modo non ci deve essere frustrazione nel cuoco quando fa un puré o gli spaghetti al pomodoro, anzi! Con quei piatti va a toccare i momenti struggenti di una famiglia avendo a disposizione pochi ingredienti: il rischio è alto, ma alto può essere il riconoscimento».

Il pranzo della domenica

Il pranzo di famiglia è un argomento caro a Pierangelini, che ha voluto trasformare Irene «da ristorate/bar/saletta d’albergo a bistrot fiorentino, il posto dove fare il pranzo borghese della domenica».

Anche Davide Scabin ha fatto lo stesso con il suo Blupum di Ivrea, ovvero ricreare il classico ristorante da famiglia – ma perché un bistrot e non una trattoria, visto che siamo in Italia? «Perché il modello è quello dei grandi spazi francesi dove ci si incontra a qualsiasi ora per un tè o per una cena. Un modello che voglio portare anche in altri ristoranti-prototipo, per fare cucina italiana raccontando la storia degli ingredienti, dandogli nome e cognome, senza fare per forza del foklore da penne all’arrabbiata. Detesto la parola “rivisitare”, al limite visito la storia con estrema attenzione verso i prodotti».

E allora da Irene in menu si trovano piatti come la stracciatella al limone (fatta con un brodo consumato per otto ore), la panzanella, il vitello tonnato, i carciofi alla nepitella, e sì, gli spaghetti al pomodoro che notoriamente Pierangelini non serve volentieri ai bambini e che al Gambero Rosso costavano come quelli all’astice.

Ci sediamo all’aperto e come saluto della cucina arrivano due pomodori interi con coltello da cucina, pane e olio, più un bicchiere di vino rosso per il signore e uno di vino bianco per la signora. Un’idea simpatica, ma un po’ avventata e categorica.

Sensibilità femminili?

Pierangelini, a me che son signora, aveva già raccomandato di assaggiare la sua passatina di piselli e quinoa, un piatto pensato per le donne: in effetti è una zuppa delicata, dal mood dietetico, e forse per questo più gradita al gentil sesso (incalzato, ha poi salomonicamente dichiarato che non esistono un palato maschile e uno femminile, solo sensibilità diverse).

Gli antipasti che scegliamo sono eterei e squisiti: tartara di gamberi, ricotta e carciofini crudi; crudo di ricciola con ravanello, sedano rapa, barbabietola e vinaigrette agli agrumi.

È poi d’obbligo a questo punto provare gli spaghetti al pomodoro: e qui ha ragione lo chef sul fatto che ognuno di noi ha la sua idea platonica di questo piatto che perfetto lo è solo a casa nostra. Quelli di Irene sono spaghettoni spessi, molto al dente, serviti con una salsa quasi dolce di pomodori rotti a mano, con timo, basilico, aglio, burro, poco sale. Se il vostro paradigma è radicato nei sapori forti e assolati del meridione resterete interdetti; se venite dal nord, potreste vivere il vostro momento-madeleine.

Value for money

Le porzioni sono molto abbondanti, e il menu domenicale del “pranzo dalla nonna” permette di mangiare lasagne con ragù di Chianina, pollo arrosto con patate, zabaione per 35€ a testa – il tutto griffato Pierangelini, nel centro di Firenze, in un ristorante dal design molto curato annesso a uno degli hotel più lussuosi della città: il rapporto value for money è assolutamente vincente.

L’idea di Pierangelini e della proprietà è di far percepire Irene come qualcosa di staccato dall’albergo a cinque stelle, di immediatamente accessibile a tutti i fiorentini e a tutti i turisti. Se non si faranno ingannare dalla soggezione, sarà il passaparola dei primi ospiti a veicolare il messaggio.

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