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L'agroalimentare? Sarà salvato dagli chef (all'estero)

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L'agroalimentare? Sarà salvato dagli chef (all'estero)

Potranno gli chef salvare l’agroalimentare italiano? “Potranno contribuire alla crescita del nostro made in, ma servono due prerequisiti: devono capire che il ristorante che gestiscono è un’impresa vera a e propria e in quanto tale richiede competenze manageriali; e devono mettersi insieme, fare squadra e massa critica per avere spazio sui mercati internazionali e fare da traino non solo del food ma anche del turismo”. Risponde così Massimo Bergami, direttore di Alma graduate school alla domanda “Ci salveranno gli chef?” che fa da titolo al libro firmato da Denis Pantini, direttore area Agroalimentare di Nomisma e dalla giornalista Alessandra Moneti (Agra Editrice).

Due le questioni cui gli autori cercano risposta: qual è il contributo che la cucina italiana può dare alla crescita del nostro sistema agroalimentare – che arriva a pesare il 14% sul Pil e sull’occupazione nazionale ma non è immune dagli effetti della crisi – e in che modo la passione per la cucina influisce sui consumi alimentari interni, scesi oggi ai minimi degli anni Sessanta?

Parola d’ordine: esportare

La parola magica sembra essere, come per tutto il manifatturiero, l’export. Che in effetti è cresciuto dell’80% negli ultimi dieci anni superando i 34 miliardi l’anno scorso tra agricoltura e agroindustria. Ma delle oltre 54mila imprese alimentari solo il 12% esporta e Germania e Francia ci battono di misura per vendite oltreconfine pur non avendo cucine altrettanto trendy.

E allora che cosa manca? “Il punto è che per fare i numeri la qualità non basta – risponde Paolo De Castro, presidente della commissione Agricoltura del Parlamento europeo – serve la distribuzione. Ma l’Italia non ha catene distributive con la propria bandiera all’estero, un gioco impari rispetto ai francesi che in Cina con Carrefour hanno il primo gruppo distributivo del Paese”. Eppure la cucina italiana è molto più di moda di quella francese, a New York non si trova posto neppure nei grandi ristoranti italiani da 250 posti, come Sd26, se non prenotando con settimane di anticipo. E anche in Cina oggi portare come regalo un vino, un formaggio, un culatello made in Italy è la tendenza più glamour.

La Germania esporta però 55,1 miliardi di prodotti alimentari contro i nostri 26 (la Francia 42) e ha wurstel, patate e birra come piatti forti a trainare il business. L’impresa alimentare tedesca ha però un fatturato medio di 5,1 milioni, quella italiana di appena 2, e le aziende sopra i 250 addetti sono appena l’1,5% lungo lo Stivale contro l’8,7% degli alemanni. “Per le nostre piccole imprese alimentari accedere al canale estero della ristorazione italiana è più facile che entrare nella Gdo – spiega Denis Pantini – e gli chef giocano un ruolo chiave anche nel diffondere la conoscenza dei nostri prodotti nel mondo, inserendoli nelle abitudini alimentari delle tavole straniere”. Sono 80mila i nostri ristoranti distribuiti worldwide, 1.500 quelli certificati “ospitalità italiana”, nel mondo un nuovo ristorante su tre aperto di recente sventola il rosso-bianco-verde.

De Castro: 100% made in Italy è puro romanticismo

“Bisogna però uscire dalle trappole cognitive in cui i nostri produttori, piccole imprese familiari, sono incastrati – sottolinea Bergami – e imparare da settori paralleli. Come ha fatto Oscar Farinetti, che ha applicato all’agroalimentare le logiche delle reti di elettronica”. Oggi Eataly a New York è la seconda attrazione più visitata, dopo l’Empire State Building. “Va benissimo il progetto Fico, la Disneyworld del cibo che nascerà a Bologna, ma l’agroalimentare deve iniziare a pensare in grande, a uscire dai confini del territorio, del campanilismo e della disorganizzazione”, rincalza De Castro. Riconoscendo però l’eroismo delle nostre aziende del food, che riescono a superare i 34 miliardi di esportazioni con metà degli ettari coltivati della Francia (17 contro 30 milioni), costrette a importare la maggior parte delle materie prime (“i discorsi sul 100% italiano sono puro romanticismo”, stigmatizza il commissario), a sostenere costi energetici e di trasporti esorbitanti e senza canali distributivi ad aprire le strade oltrefrontiera.

Gli chef possono essere la chiave per rivitalizzare le tipicità italiane non solo all’estero, ma anche in Italia. “L’anno scorso sono stati 730mila gli stranieri arrivati qui per una vacanza enogastronomica – racconta Alessandra Moneti – un numero triplicato negli ultimi cinque anni. Food&wine sono i temi più cliccati in assoluto in rete e il fenomeno televisivo e mediatico delle scuole di cucina è sotto gli occhi di tutti e sta cambiando comportamenti d’acquisto e di consumo”.

Chi guarda il cibo in tv è più attento a ciò che acquista

Un’indagine Nomisma presentata nel libro di Pantini e Moneti conferma che il 73% degli italiani segue programmi tv e siti web dedicati alla cucina, il 55% compra riviste e libri di cucina, oltre il 10% ha partecipato a corsi specifici. Nel 95% dei casi (su un campione di mille responsabili degli acquisti familiari) questo ha portato ad avere più attenzione alla qualità del prodotto messo nel carrello della spesa, nell’89% dei casi a verificare che sia di origine italiana, nel 63% dei casi ha indotto acquisti di Dop e Igp, nel 61% a stimolare il turismo enogastronomico e nell’81% a dedicare più tempo in cucina.

Decuplicate in otto anni le iscrizioni a istituti alberghieri

Altra conferma del fenomeno chef arriva dai dati di iscrizioni agli istituti alberghieri, decuplicate tra 2004 e 2012, da 23mila a oltre 241mila. In Italia manca però ancora una scuola pubblica di cucina e un codice della cucina nazionale. “Così come è decisamente carente la formazione – conclude il direttore dell’Alma graduate school – a partire dalla preparazione dei docenti delle scuole alberghiere per arrivare alla specializzazione di manager per i settori agroalimentare, distribuzione e ristorazione. Un fronte su cui ci sono spazi di miglioramento enormi”. Non si spiegherebbe altrimenti il pullulare di scuole di eccellenza aperte da singoli chef, da Alaimo a Niko Romito.

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