Arretrata e poco propensa all’innovazione, ma al tempo stesso solida e ad alto potenziale. E’ la fotografia dell’industria alimentare italiana alla vigilia di Expo2015, ovvero l’evento che dovrebbe proiettare il nostro Paese alla guida del food mondiale. Eppure, qualcosa non va: il sistema non sembra pronto ad affrontare le grandi sfide che l’attendono, soprattutto in fatto di commercializzazione dei prodotti ed export.
Digitalizzazione e innovazione latitano
La fotografia impietosa emerge dalla ricerca “Work in Food, future jobs trends in the food industry” condotta per Expo 2015 dall’agenzia di ricerca del personale, ManpowerGroup, su un campione di 442 aziende e presentata oggi a Milano.
“L’obiettivo – spiega Stefano Scabbio, presidente ManpowerGroup Area Mediterraneo – era analizzare il mercato del lavoro nel settore alimentare, le tendenze per il futuro anche in rapporto ai trend mondiali. Studiando le previsioni di occupazione possiamo avere una fotografia delle strategie aziendali per affrontare le sfide mondiali su mercati in perenne evoluzione”.
In un pianeta con 800 milioni di persone denutrite e 1 miliardo in sovrappeso, dove la popolazione raggiungerà i 9 miliardi di individui nel 2050 e ancora si butta via il 30% del cibo, appare chiaro come l’industria alimentare avrà un ruolo sempre più strategico, non solo in Italia.
Ma le nostre aziende lo hanno capito? Mica tutte, sembrerebbe da quanto emerge da questa ricerca.
“Vediamo chiaramente – prosegue Scabbio – dei trend internazionali di cambiamento nel mercato alimentare, negli ambiti della distribuzione, digitalizzazione e innovazione, sui quali noi arranchiamo. Inoltre, sono sempre più richieste tutta una serie di soft skill che le persone che operano nelle aziende italiane dovrebbero avere e dove siamo molto carenti”.
L’occupazione non cresce
E vediamo cosa è emerso dall’indagine sul mercato del lavoro. La buona notizia è che il mercato del lavoro nell’alimentare non sembra prevedere contrazioni per il 2015, ma nemmeno aumenti: il 29% degli intervistati assumerà (a fronte, però, di un 47% dell’Europa e 65% degli Usa) e il 63% non ridurrà l’organico (34,4% in Europa e 30% negli Usa). Il commercio rappresenta un traino occupazionale per il food, ma non per le le piccole e micro imprese, che ancora sono la maggior parte del panorama e che faticano ad aumentare il personale.
Le nuove assunzioni in Italia si concentrano, comunque, sulla produzione nell’80% dei casi. “In Italia siamo bravissimi a produrre – specifica Scabbio –, ma poco a vendere. L’eccessiva focalizzazione sulla produzione non consente di cogliere opportunità di canale, quali l’export e il digital, e di mercato seguendo l’evoluzione dei bisogni del consumatore”.
Si pensa più a produrre che a vendere
Non si punta, quindi, né su innovazione, né su marketing, né su sales, fatta eccezione per le grandi aziende. In Europa e negli Usa, invece, l’attenzione riservata a questi ambiti è nettamente superiore, anche perché il trend dei consumatori sta andando proprio in questa direzione: maggiore consapevolezza dei rischi alimentari, esigenze di consumo più sofisticate, rivoluzione digitale (banalmente, l’e-commerce di alimentare made in Italy sta crescendo a ritmi serrati, ma si pensi anche solo all’applicazione della tecnologia lungo tutta la catena del valore industriale), internazionalizzazione della domanda e dell’offerta.
Pochi export-manager
Ma qui arriva la sorpresa: da noi non si punta davvero nemmeno sull’export. Nonostante questo sia la vera risorsa per il settore, solo il 12% degli intervistati investirà nell’assunzione di sales export. Eppure, visto il perdurare del ristagno dei consumi in Italia, l’oltre confine dovrebbe essere quasi una scelta obbligata. Il mercato americano, al contrario, è caratterizzato da ambiti peculiari di assunzione in questo ambito, sia per il retail tradizionale sia per quello elettronico.
Passando all’innovazione, quali sono i settori che le aziende reputano più strategici per il food? Ebbene, circa il 50% degli intervistati non è stato in grado di rispondere. Più reattive le piccole aziende, per cui la sostenibilità è una priorità, seguita da alimenti speciali e biologico, in linea con il resto d’Europa e con gli Usa.
L’e-commerce? Non è ritenuto strategico
Per non parlare del digital, dove solo il 43% delle aziende intende investire in figure specializzate (contro il 60% dell’Europa e il 65% degli States). Al di là delle grandi aziende e dei player del commercio, c’è ancora poca confidenza nell’e-commerce che non è ritenuto strategico, mentre internet è vissuto spesso come una vetrina e non come un vero e proprio canale di vendita.
Dal canto loro le aziende lamentano di non riuscire a trovare profili adeguati alle richieste: solo il 12% dichiara che i profili sul mercato sono adeguatamente formati. Ciononostante, il 45% delle aziende non porrà in essere percorsi formativi e quindi non colmerà il gap formativo rintracciato in fase di selezione.
“C’è necessità di crescita culturale a livello di management – conclude Scabbio – soprattutto per le pmi, per avere maggiore visione strategica. L’Expo sarà un’occasione meravigliosa per offrire uno stimolo al cambiamento culturale alle imprese italiane e dall’altro annullare un po’ le distanze tra i vari Paesi. Sul lato occupazionale potrà far percepire in maniera più netta bisogni occupazionali a oggi emergenti, come le figure legate al digital e all’innovazione”.
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