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Storie di eccellenza

Parmigiano o Piacentino? La vera storia delle forme di formaggio più famose del mondo

«I formaggi piacentini da alcuni sono chiamati parmigiani perché anche a Parma se ne producono di simili, non molto diversi per qualità. Così anche nel territorio di Milano, Pavia, Novara, Vercelli; anzi, da pochi anni anche più su, nelle zone prealpine, hanno incominciato a confezionarne di simili, e abbastanza buoni; ma a dire il vero i piacentini superano gli altri in bontà». Così nel 1477 scriveva Pantaleone da Confienza nella sua “summa lacticinorum”.

Formaggio piacentino? Mezzo millennio dopo la città di Piacenza non viene certo identificata con la produzione del grana di miglior qualità, superiore addirittura al parmigiano reggiano.
Eppure se oggi il mondo del grana è rigidamente diviso in due consorzi (che poco si amano), uno che comprende «i territori delle province di Bologna alla sinistra del fiume Reno, Mantova alla destra del fiume Po, Modena, Parma e Reggio nell’Emilia» (così recita il disciplinare di produzione del parmigiano reggiano) e l’altro tutto il resto (ovvero il grana padano) lo si deve un po’ al caso e parecchio a scelte poco lungimiranti dei produttori di Piacenza e di Lodi.
Il formaggio grana – nome generico che indica tutti i formaggi prodotti con due mungiture di latte e due cotture – nasce con ogni probabilità tra l’XI e il XII secolo nelle abbazie benedettine dell’Emilia e della bassa Lombardia. Stagionare il formaggio non è altro che un metodo per conservare a lungo il latte in epoche in cui la refrigerazione è sconosciuta. All’interno di quest’area si distinguono le zone di Parma, Reggio, Lodi e Piacenza, con quest’ultima che si impone per standard qualitativi. I veneziani, ai quali i soldi non mancano, vogliono solo cacio piacentino per mandarlo in dono al sultano e ai pascia di Costantinopoli. E Giulio Landi, che nel 1542 scrive un’operina dal titolo “formaggiata” annota: «a Roma dicesi formaggio parmeggiano e in Francia melanese, ma viene da Piacenza.»
A un certo punto Parma comincia a perder colpi. I primi segni della crisi si colgono già nel 1688 quando un francese, Maximilen Misson, scrive: «il formaggio tanto rinomato, che si chiama parmigiano, non si produce al momento nello stato di Parma, ma nel milanese, e particolarmente nei dintorni di Lodi.» A mano a mano che ci si inoltra nel secolo successivo, la produzione parmigiana cala sempre più. Per esempio nei libri mastri dell’ospedale maggiore di Milano dal 1765 le forniture di formaggio grana cambiano da parmigiano a lodigiano. Nel medesimo anno un altro viaggiatore francese, Joseph-Jérôme de Lalande, osserva: «i formaggi conosciuti in Francia sotto il nome di parmigiano si producono esclusivamente nel territorio di Lodi, alla sinistra del Po, in quel di Pavia e lungo l’Adda». La crisi si approfondisce in età napoleonica, tanto che nel 1805 non c’è più alcuna casa commerciale parmigiana che venda formaggio, mentre nel 1816 risultano esserci nella bassa Lombardia ben 1200 fabbriche di formaggio grana, con una produzione media di 300 forme annue ciascuna. E quando, nel 1855, il tedesco Karl Baedeker pubblica la sua guida sull’Italia, riguardo a Parma afferma: «l’apprezzato formaggio parmigiano, qui chiamato grana, porta il suo nome ingiustamente, poiché viene prodotto in Lombardia.»
La situazione è chiara quindi: a metà Ottocento Parma non ha quasi più nulla a che fare con il formaggio grana (e probabilmente neanche con il prosciutto, visto che nelle forniture di carne per le mense di Maria Luigia quasi non c’è traccia di maiale, e nell’inchiesta di Stefano Jacini del 1881 sulle produzioni agricole italiane si nomina soltanto il prosciutto di San Daniele). Poi succede qualcosa. Qualcuno evidentemente si rimette a produrre quel formaggio che nel passato tante soddisfazioni aveva dato alla città.
Nel 1861, a unità d’Italia appena avvenuta, una relazione della neocostituita camera di commercio annota: «nella provincia parmense le industrie più meritevoli di speciale attenzione sono la fabbricazione de’ formaggi». E pochi anni dopo, nel 1867, a Bibbiano, in provincia di Reggio Emilia, si costituisce la società bibbianese pel commercio formaggi che segna l’atto di nascita del parmigiano reggiano come lo conosciamo noi oggi.
E in Lombardia? E nel piacentino, legato a doppio filo con il confinante lodigiano? Si pensa ai danè, c’è poco da filosofare. Il burro spunta prezzi migliori del formaggio? Facciamo burro. I formaggi freschi o a stagionatura breve eliminano i costi dell’immagazzinamento, con gli onerosi interessi passivi? Basta grana, meglio stracchino e mascarpone, che proprio nel lodigiano trae la sua origine.
Mentre a Parma e a Reggio la produzione di grana riprende e comincia a salire con un trend che nemmeno le guerre mondiali riusciranno a interrompere, a poco a poco Piacenza e Lodi la abbandonano. Oggi la situazione è quella che conosciamo: il consorzio del parmigiano reggiano (nato nel 1934) esprime la produzione dell’area storica, il resto si raggruppa nel consorzio del grana padano (fondato nel 1954). Piacenza è uscita dall’universo del formaggio grana, mentre la produzione di granone lodigiano è cessata alla fine degli anni settanta. All’inizio degli anni duemila è stata ripresa, ma il grana prodotto a Lodi non ha più le caratteristiche di quello di un tempo a causa della scomparsa delle marcite e del trifoglio da foraggio, annichiliti dalla coltivazione intensiva del mais.

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