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Perché il pinzimonio di Ducasse costa 88 euro

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Perché il pinzimonio di Ducasse costa 88 euro

“Questa è solo una vetrina”. Antonino Cannavacciuolo fa fare alla mano un giro che indica la stanza e poi si rimette a braccia conserte, nella minacciosa posa che un semiologo chiamerebbe la “marca di enunciazione” del programma tv “Cucine da incubo”.

Siamo nel bar di Villa Crespi, l’hotel e ristorante di lusso (due stelle Michelin) che lo chef napoletano gestisce sul romantico e nebbioso Lago d’Orta. Da terra a soffitto, non c’è angolo di questo bizzarro edificio costruito a fine ‘800 in stile moresco che non sia decorato con stucchi a stampo dipinti a mano. Preservare “la vetrina” in tutto il suo splendore costa. Soprattutto se i coperti sono 50, le camere 14, e i dipendenti 30.

Spesso chi legge prezzi che vanno dai 150 ai 250 euro a persona pensa che chef e ristoratori si arricchiscano alle spalle di fresconi disposti a spendere cifre irragionevoli per una cena-status symbol.

La verità è che sono soprattutto gli chef proprietari di ristoranti pluristellati a non essere ricchi. Le spese di manutenzione e/o locazione, e soprattutto del personale, fanno sì che nonostante la visibilità a volte parossistica, siano imprenditori perennemente preoccupati di far quadrare i conti.

Come dice Cannavacciuolo, la sua bella sala con veranda sul parco è uno showroom: “I soldi si fanno con le consulenze, le sponsorizzazioni, i programmi televisivi”. E quasi sempre queste incursioni esterne servono a mantenere in vita la propria cucina.

“Le accetto a seconda di quel che mi serve”, spiega candidamente ma con malinconia Moreno Cedroni, di La Madonnina del Pescatore, due stelle Michelin e uno dei dieci migliori ristoranti di pesce in Europa per il Wall Street Journal. “Me ne starei volentieri ai miei fornelli di Senigallia, ma so che tot soldi al mese li devo portare io: sono molti i giorni in cui non si raggiunge il punto di pareggio. Aumentare il prezzo del menu è impossibile, quello del Clandestino (il ristorante più informale di Cedroni, ndr) è fermo da sei anni”. Il menu più richiesto (e più caro) della Madonnina costa 130 euro per 12 portate; ce n’è anche uno da 60, ma il patron dice che non funziona un granché.

“Il menu più conveniente, con meno portate, interessa poco il cliente del ristorante di fascia alta, che tipicamente si fa un viaggio per arrivarci e godersi un’esperienza gastronomica”, conferma Davide Scabin del Combal Zero di Rivoli (due stelle, 40° nella classifica The World’s Best 50 Restaurants). Scabin ha lavorato di cesello per proporre 15 piatti diversi a 160 euro, solo la sera, cinque giorni alla settimana. Nel suo caso come in quello dei suoi colleghi più conosciuti, è facile notare che il prezzo a portata è inferiore o pari a quelli di una normalissima trattoria. Massimo Bottura dell’Osteria Francescana di Modena (tre stelle, terzo posto nei 50 Best) fa 13 portate a 180 euro. “Quando vieni a mangiare i miei tortellini alla panna non paghi un primo, paghi 25 ragazzi in cucina. Ho solo 11 tavoli per mantenere un certo rapporto con i clienti, per coccolarli”.

Il numero dei coperti è un tassello importante per capire come girano le ruote di questo business. “Non puoi abbassare i prezzi e fare entrare più gente, snervi il locale con il rumore”, spiega ancora Cedroni. Scabin arriva al massimo a 40 ospiti, così come Massimiliano Alajmo delle Calandre di Padova (tre stelle, 27° nei Best 50).

Suo fratello Raffaello – che dirige 100 dipendenti in tutto per il piccolo impero di famiglia composto di tre ristoranti, tre bistrot, un caffé storico (il Quadri di Venezia) e un “alimentari” per gourmet – entra nel vivo della questione: i costi che l’ospite non percepisce e che finiscono invece sul suo conto. “I profumi d’ambiente e i saponi disegnati apposta per il locale; le quattro foresterie per alloggiare il personale; le uniformi, che per Le Calandre sono cucite su misura per ogni membro dello staff, dalla camicia alle scarpe, con cravatte di Marinella: uno stimolo all’orgoglio e alla cura di sé; c’è differenza dai soliti pantaloni neri e camicia bianca portati da casa”.

Ettore Bocchia, chef presso l’hotel cinque stelle lusso Villa Serbelloni di Bellagio e una stella Michelin, racconta di pasti non esattamente da mensa preparati ogni giorno anche per i 200 dipendenti che servono 35 camere e i 90 coperti dei suoi due ristoranti; e di nove lavandaie e due sarte che si occupano dei lini della struttura. Scabin, che non ha una struttura interna, spende dai 15 ai 20 euro per tavolo (considerando l’ammortamento delle stoffe), perché “selezioni il tuo lavandaio come selezioni il tuo fruttivendolo: deve stirare a mano, niente mangano”.

E poi ci sono i cristalli, che devono essere rimpiazzati di continuo, i fiori freschi, i toner per stampanti che vanno a 700 euro l’uno. “Quando hai 8000 euro all’anno di spese di cancelleria e vedi che sono proporzionali al numero dei coperti, li spalmi per forza sul food cost. In effetti chi viene a mangiare da me non sa che con le erbette di misticanza si sta gustando anche una risma di carta”, ride Scabin.

Arriviamo finalmente al cibo: la sua incidenza sul conto presentato a fine cena? “22%, ma può salire di un ulteriore 5% se non stai attento a fare la spesa, alla stagionalità del branzino a seconda della sua provenienza” dice Bocchia, famoso se non famigerato per la puntigliosità con cui visita e controlla tutti i suoi fornitori. A casa loro. “Invece di ordinare da poche grandi case intermediarie, vado direttamente a scegliere il produttore e lo tengo personalmente d’occhio perché mantenga i parametri che hanno reso grande la sua materia prima; le mozzarelle me le faccio fare in Trentino, lo so che sembra strano, ma sono le migliori. Quando hai 280 ingredienti a comporre il menù, se sai comprare e gestire i frigoriferi, il risparmio è considerevole”.

Per quanto possa essere oculato lo chef negli acquisti, gli sfridi di cucina a questo livello di ristorazione sono comunque altissimi: 250% su un rombo, il 100% su un filetto di fassona, il 40% perfino sulle patate, una volta pelate e modellate.

Per il vino vale ancora la regola aurea del ricarico triplicato? “Dipende dalla bottiglia” spiega Alajmo. “Noi abbiamo un prezzo minimo di carta di 30 euro, diciamo che se si trattasse di un vino da 5 euro lo ricaricheremmo per 6. Se paghiamo una bottiglia 100 euro fuori Iva, la proponiamo a 240 al massimo. In ogni caso il 30% del fatturato viene dagli incassi beverage”.

I brindisi che fanno scena sono, a detta di tutti gli chef interpellati, cosa del passato. Spendere certe cifre al ristorante è politicamente scorretto, dichiara ancora Alajmo (che vanta comunque il menu degustazione più costoso di tutti: 250 euro, con tartufo). Bocchia, la cui clientela è meno italiana e più composta da celebrità internazionali e teste coronate, riscontra che il vero lusso ora si consuma privatamente, nelle case.

Spostati sul pallottoliere gli ingredienti, le tovaglie, i bicchieri, le risme di carta, le tasse sull’immondizia restano due sfere: l’inevitabile e monolitico costo dei muri (affitto o ammortamento) e quello del personale. Che nell’industria del lusso è abbondante: il tipico rapporto ospite-addetto è 1:0,8.

Scabin: “In un’azienda emersa il personale arriva a coprire il 60% del conto finale. Nel nostro circuito siamo strutturati per avere il locale pieno tutti i giorni a dispetto del flusso reale dei clienti. I ristoranti “normali” invece sono strutturati per un’accoglienza al 60%; se il locale si riempie, i tempi di attesa si allungano. La spia che questo concetto non è apprezzato dal pubblico? Quando perfino gli amici ti chiedono qual è la serata più tranquilla per venire a mangiare. E gli devi spiegare che non c’è differenza”.

Per Bocchia lo staff ha un costo che viaggia tra il 47 e il 55% a seconda della formazione. “Ma il problema vero sono gli straordinari, perché in nessuna cucina bastano le otto ore al giorno. In Francia e in Svizzera non sgarrano: 42 ore alla settimana, punto. Lì i ristoranti di lusso stanno chiusi due o tre giorni alla settimana, così gli è sufficiente una sola brigata”.

Aiutarsi con degli stagisti, in Italia, non è facile come altrove. “Ero un accanito datore di lavoro, assumevo in continuazione”, racconta Cedroni. “Non è più possibile per ovvie ragioni. Ma mentre i nostri colleghi francesi e spagnoli hanno le cucine piene di stagisti, noi abbiamo un tetto pari al 10% del personale a tempo indeterminato. La paga invece deve essere adeguata al mercato estero, 1/3 di uno stipendio base, perché altrimenti non trovi i ragazzi disposti a fare la gavetta da te”.

L’eterna competizione con la Francia viene citata da tutti gli chef intervistati. E chi si siede sia ai loro tavoli che a quelli dei colleghi tristellati d’oltralpe sa che in Francia i menu fissi costano molto più che in Italia. 360 euro all’Arpège di Alain Passard a Parigi; 330 al Restaurant Pic di Anne-Sophie Pic a Valence. Il prezzo del pinzimonio che Alain Ducasse serve al Louis XV di Monte-Carlo è di 88 euro.

Per quanto indimenticabile e il punto più alto di un pranzo che ne vale 500, è evidente che quel bicchierino di verdure provenzali con julienne di tartufo nero non costa così per l’esosità del contadino che rifornisce il ristorante.

Perché allora? Perché i francesi se lo possono permettere. Secondo Raffaele Alajmo “in Italia si guarda al prezzo e basta, mentre i francesi hanno una consapevolezza molto più alta del valore del cibo. E 300 anni di storia della ristorazione in più su cui appoggiarsi”. O come dice Scabin, “noi siamo ancora solo dei trattori”.

Se tutti navigano a vista e nessuno ci guadagna perché andare avanti allora? “Per affetto” dice ancora Scabin. “La prima volta che ho incontrato Joe Bastianich (il serial restaurateur italo-americano reso celebre da Masterchef, ndr) mi ha praticamente chiesto il mio 740. Mi ha ascoltato, poi mi ha fatto la stessa domanda”. E cosa gli ha risposto? “Beh, o ti senti un pirla con P maiuscola; o gli spieghi la passione di uno chi come me ci ha messo una vita dentro, si è fatto da solo e ha rischiato senza investitori”.

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