
La storia di Pino Cuttatia, chef del ristorante La Madia, a Licata, in Sicilia, comincia da una semplice cipolla. E’ tagliando quella cipolla che lui si è accorto di quanto gli piacesse fare quello che stava facendo, di quanto si sentisse davvero libero solo quando era in cucina. Da quel giorno la sua vita è cambiata. Dal Piemonte, dove la sua famiglia si era trasferita quando lui era ancora un ragazzino, è rientrato a Licata, dove ha aperto il suo ristorante, un ristorante che oggi vanta due stelle della prestigiosa Guida Michelin.
La pubblicazione della nuova Guida francese è di pochi giorni fa. Impossibile non parlarne.
La stella, per il nostro lavoro, è come se fosse una laurea, una laurea che ogni anno sei chiamato a riconfermare. La stella è uno stile di vita, rappresenta un modo di raccontarsi dal punto di vista gastronomico. E’ la testimonianza del buon lavoro che hai fatto, dei sacrifici compiuti perché quel risultato fosse raggiunto. La Guida Michelin, però è anche quella più imprevedibile, oltre ad essere quella che incide di più sull’immaginario collettivo. Non c’è un punteggio da limare o far crescere come per quelle italiane, per i francesi ci sono le stelle e quando queste si accendono o si spengono rappresentano un cambio di paradigma, per ristoranti e chef.
Ma torniamo indietro a quando aveva quattordici anni, al trasferimento a Santhià. Come ha vissuto quegli anni?
Per me quel periodo è stato durissimo. La morte di mio padre costrinse la mamma a rimboccarsi le maniche e per dare sostegno alla nostra famiglia fu costretta a trasferirci tutti in Piemonte. Sono stato estirpato dal posto in cui ero cresciuto, in cui mi ero formato. A quattordici anni ormai credi di avere le tue certezze, hai i tuoi amici, i tuoi punti di riferimento. Ed invece, di colpo, tutto questo mi è stato portato via e mi sono ritrovato in un posto che non era il mio. Nonostante poi mi sia trovato benissimo ed abbia ricevuto tanto da quella terra, ho sempre mantenuto in me la voglia di tornare. Perché casa per me era a Licata, nella mia Sicilia. Tornare a casa è il sogno di chi se ne allontana, è il sogno di chi va via. Lo è stato anche per me e per tanto tempo.
Il Piemonte, però, le ha permesso di crescere e formarsi?
Non solo. Mi ha permesso di trovare la mia strada. Quando sono arrivato ho cominciato a fare piccoli lavoretti nei ristoranti, soprattutto come lavapiatti. Questo mi ha consentito di avvicinarmi ad un mondo che, forse, a Licata non avrei potuto avere l’occasione di incontrare. Passavano gli anni ed io passavo sempre più tempo in cucina, con ruoli diversi. Poi, però, ad un certo punto il mio orientamento è cambiato. Vedevo gli amici andare in discoteca, divertirsi, ed io non potevo seguirli, non avevo tempo per stare con loro. Così ho deciso di andare a lavorare in fabbrica: pensavo che avere un lavoro con degli orari fissi mi avrebbe fatto sentire più libero. Ma non è stato assolutamente così, anzi.

Perché? Che percezioni ha avuto?
La ripetitività delle cose che facevo mi stava distruggendo. Guardandomi attorno mi sono reso conto che tutte le persone che lavoravano con me avevano degli hobby. Ho compreso in quel periodo di quanto la gente abbia bisogno di sentirsi realizzata, di trovare una valvola di sfogo rispetto a qualcosa che non le piace. L’uomo è creativo e questa creatività in qualche modo dev’essere espressa. Così c’era chi si occupava di fotografia, chi di modellismo, chi si dedicava al “fai da te”, chi in maniera molto più semplice e banale andava a pesca. Ma ognuno di loro aveva “qualcos’altro” da fare. Ed era così anche per me. Il mio hobby era la cucina, quella cucina che non avevo mai abbandonato e che continuava a riempire completamente il mio tempo libero. Poi un sera l’illuminazione, proprio tagliando una cipolla, mi sono reso conto di quanto anche quel semplice gesto potesse essere fatto in mille modi diversi, di quanto potesse esprimere un modo di essere e raccontarsi. Da quel momento non ho più avuto dubbi ed ho trasformato ciò che avevo per hobby, nella mia professione.
E’ stato facile tornare indietro e lasciare la fabbrica?
Per me facilissimo. Una volta presa la mia decisione ho dato un taglio netto a ciò che stavo facendo per dedicarmi a ciò che amavo. Difficile è stato comunicarlo in famiglia. Loro non capivano, mia madre non capiva. Quando le dissi di aver lasciato la fabbrica perché volevo fare lo chef ci rimase molto male. Mi disse che quel lavoro mi avrebbe allontanato da tutto, mi avrebbe allontanato anche da lei, che era come se mi avesse perso. Poi con il tempo ha compreso, ha capito che la passione non la puoi arginare, che devi seguirla. Ed io avevo voglia di recuperare in fretta tutto il tempo che avevo perduto. Volevo imparare in fretta. Ero e sono un autodidatta, ma ho compreso subito quanto la mia professione fosse interconnessa con quella di tanti altri: il panificatore, il pasticcere, il macellaio. Era necessario capirne sempre un po’ di più. Il tempo per fare tutto sembrava non bastare mai, sembra ancora oggi non essere mai sufficiente. E’ proprio il tempo il termine di paragone tra ciò che fai per passione e ciò che fai per necessità: in fabbrica non vedevo l’ora di finire, guardavo continuamente l’orologio, oggi, invece, non mi accorgo del tempo che passa mentre faccio le cose che faccio, anzi, vorrei fermarlo perché a volte ho la sensazione di non averne abbastanza.
Perché è tornato a Licata? Non sarebbe stato più semplice restare in Piemonte?
Non c’è alcun dubbio. Avevo fatto esperienze sempre più importanti in ristoranti di ottima qualità. Restare lì avrebbe rappresentato la giusta “consecutio” del mio percorso professionale. Inoltre il Piemonte mi ha dato la possibilità di imparare, mi ha insegnato il rigore, la capacità di applicazione. Senza l’esperienza in Piemonte la mia storia umana e gastronomica non sarebbe stata la stessa. Ma come detto la voglia di tornare a casa non mi aveva mai abbandonato. L’incontro con la donna che sarebbe diventata mia moglie ha fatto il resto: lei ha fatto pendere ancor più l’ago della bilancia verso il mio ritorno in Sicilia.
E’ stato facile?
Neanche un po’. Quando sono arrivato non c’erano locali importanti in cui poter andare a lavorare, per continuare ad imparare e crescere professionalmente. In Sicilia c’era grande artigianalità, ma non si dava valore al mestiere, era difficile trovare un luogo nel quale potessi cercare ciò che, invece in Piemonte avevo già trovato. Ed allora l’unica era farsi coraggio ed aprire il mio locale. Quello è stato un passaggio fondamentale della mia vita. Ho creduto tanto in me stesso, nelle mie possibilità di successo, di riuscire a creare qualcosa di mio e che diventasse espressione del mio racconto gastronomico. Non è stato semplice imporre il mio pensiero, la mia filosofia. Quello che offrivo io era diverso dal mercato locale, non era facile farsi accettare ed all’inizio è stata davvero dura. Ma non mi sono fatto cambiare, ho tirato diritto per la mia strada, consapevole che, per me, fosse quella giusta. Lo dicevo spesso anche a mia moglie. Le dicevo che non potevo rinunciare ad esprimere ciò che avevo dentro e che se non fossi riuscito a farlo nella mia terra, piuttosto avrei preferito andar via, ma non avrei rinunciato a scrivere le mie pagine così come avevo pensato ed immaginato di fare.

Poi però si sono accese le stelle…
Proprio così. Sono certo che se fai le cose con passione, alla fine il premio arriva sempre. E’ stato così anche per me. I riconoscimenti sono arrivati, sia dalla clientela che viene a trovarci al ristorante, sia della guide che si sono interessate sempre di più al mio progetto. Ambivo a trasferire il mio concetto di cucina, di cuoco legato all’artigianalità, ai ricordi della propria terra. Un piatto può accendere la memoria, può farci rimanere legati alle nostre tradizioni, può permetterci di esprimere valori che, altrimenti si perderebbero nelle pagine del tempo senza che si riesca più a recuperarli.
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