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Si dice Fusion, si legge Finger's: dieci anni di Giappone creativo…

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Storie di eccellenza

Si dice Fusion, si legge Finger's: dieci anni di Giappone creativo a Milano

Sicuramente ci sono stati, ci sono e ci saranno bravi cuochi a interpretare la cucina giapponese nel nostro Paese, ma nessuno ha trovato l’alchimia giusta quanto Roberto Okabe. L’uomo che faceva “fusion” in tempi non sospetti, guardato con perplessità dai colleghi e dagli integralisti del sushi.

Era il 1997 e il 32enne nato a San Paolo, da genitori giapponesi, lavorava in una trattoria – ospitata nella Cascina Cuccagna – dal nome originale: Compagnia Generale dei Viaggiatori, Naviganti e Sognatori. Quasi un destino per Roberto che dopo aver riposto nel cassetto il grande sogno di fare il calciatore professionista, aveva deciso di imparare l’arte del sushi prima in Giappone e poi nella sua città natale. “Una religione che mi ha fatto crescere come chef e come uomo: ci vogliono almeno dieci anni prima di poter comporre il sushi” spiega.

Il genio di Okabe è aver capito rapidamente che unendo tecnica giapponese, fantasia brasiliana e i migliori prodotti italiani si poteva creare una nuova cucina: divertente, sofisticata e gustosa. La svolta imprenditoriale arriva dopo l’apertura di Zen – altra trovata: il primo kaitensushi in Italia – e un breve periodo in Franciacorta: Roberto rientra a Milano, trova un socio importante e apre il Finger’s in una viuzza laterale di Corso Lodi. Non certo zona da movida, eppure diventa subito cult per i gourmet ma soprattutto must have per la Milano che piace e si piace. Era il 2004, ecco perché dieci anni dopo è interessante raccontare, insieme a lui, questa piccola grande storia di cucina. Partendo dalla scelta del socio, decisiva.

Caro Okabe, su una pietra del Finger’s c’è scritta una frase suggestiva “L’incontro tra le persone è dove tutto ha inizio”. Si riferisce al suo incontro con Clarence Seedorf?

Anche. Lui è stato fondamentale per il mio lavoro. Lo conoscevo dal 2001, giocava nell’Inter – la mia squadra del cuore – e veniva alla Compagnia. Gli piaceva tantissimo il mio modo di vedere il sushi e a un certo punto mi chiese se volevo aprire un locale a Madrid dove lui aveva il centro delle sue tante attività. Io ho detto “Ok, diventiamo i soci ma il ristorante lo facciamo a Milano: sentivo che la città era pronta a un posto nuovo, elegante, dove gustare la cucina giapponese creativa”.

Il nome?

Di fantasia. Ho messo una “s” con l’apostrofo dopo finger, perché volevo insistere sul concetto del sushi da prendere con le dita. Pensavo a tanti piattini, tanti assaggi: mi ero ispirato – pochi lo sanno – a quanto faceva Gualtiero Marchesi con i suoi menu degustazione. Quando ero a Erbusco sono andato più volte per capire i meccanismi. E ho capito che in alcuni aspetti lui, da maestro, si era chiaramente ispirato alla cucina giapponese, vedi anche il menu kaiseki.

Si aspettava il successo quasi immediato?

Ho imparato dallo sport che devi conquistare il risultato mattone dopo mattone, non puoi contare solo sulla fortuna o sulla presunzione di essere forte. Io sapevo solo che mi ero preparato benissimo sulla cucina italiana, già ai tempi della Compagnia, gestita da una persona straordinaria quale Max De Luca a cui devo molto. E non essendo integralista, ho pensato a piatti dove si univano le diverse culture. Ci ha sicuramente aiutato anche la curiosità tipica di Milano per le novità e la voglia di cibo sano, senza condimenti, leggero, che non fa ingrassare. A partire dal sushi.

Nel 2011 ha deciso di allargarsi, sempre a Milano: un gioiello di ben 1.400 mq, in piazza Carbonari, che non stonerebbe a Kyoto.  Perché il Finger’s Garden?

Mi ero reso conto già qualche anno prima che la gente si “adattava” al Finger’s pur venendo con piacere. Mancava spazio interno, un parcheggio comodo, i clienti dovevano aspettare in piedi che il tavolo si liberasse…Il Garden è la risposta: c’è un bar dove bere qualcosa prima e dopo, sale privé, tanti posti per le automobili. E poi un giardino zen, come volevo io.

Questo per i clienti. Ma da chef-patron cosa è cambiato?

Ho perfezionato tutto quanto imparato in quindici anni di lavoro in Italia. Intanto ho un locale con quello che non potevo avere al Finger’s: una cucina più grande e meglio attrezzata, celle e freezer di grosse dimensioni, un’organizzazione perfetta. E poi come dicono nel Paese dei miei antenati, “ho imparato la fonte dell’acqua”. Lavoro con i migliori fornitori e posso dormire, non come i miei colleghi che si sono distrutti per andare a comprare il tonno alle quattro del mattino…Al Garden sono diventato più bravo e insieme a me tutta la mia squadra, in cucina e in sala.

Nel menu del Finger’s Garden c’è la sensazione di una maggiore essenzialità, di una ricerca verso piatti con meno elementi del passato. Come sta avvenendo per l’alta cucina italiana.

E’ vero: sto ragionando sul ritorno alle basi, su una minore elaborazione. Non bisogna rinnegare il passato ma oggi sento la voglia di accontentare maggiormente i puristi. Del resto il nuovo locale è molto più giapponese del primo, già nella struttura, e il “bancone” è nelle loro mani. Creare piatti originali resta importante ma sushi e sashimi sono intramontabili, basta una sfumatura o una salsa per dare il tocco in più. E su questo sto lavorando con rinnovato interesse.

E’ l’unico chef giapponese in Italia a duettare ogni tanto con i nostri grandi cuochi e a essere invitato ai maggiori eventi collettivi a Milano. Un bel riconoscimento.

Mi sono divertito quando Cracco ha detto che sono il miglior cuoco: si vede che non voleva citare i suoi colleghi italiani…Scherzi a parte, sono occasioni importanti: la brigata si sente motivatissima e abbiamo la possibilità di imparare da loro. Poi chiaramente mi fa piacere.

I tre signature dish del decennio?

Il “mio” carpaccio che sorprese tutti per l’accostamento tra il pesce e il gazpacho. Poi Saudade do Brasil – sushi a base di salmone e avocado –  che è nato proprio nei primi anni di lavoro, quando senza retorica sentivo ogni tanto la voglia di tornare a San Paolo. E Taiyo e Luna, piatto dedicato ai miei figli, che è molto italiano: ci sono capesante, peperoni, besciamella…

Abbiamo letto una sua critica al caviale. Interessante

Ho detto che è buono ma non vale il prezzo. Adoro le uova di salmone che sono buone ugualmente ma costano meno. Fermo restando che per me sono fondamentali tre prodotti – riso, tonno e soia – è magnifico scoprire e far scoprire nuovi sapori come quello dell’umeboshi, la prugna giapponese che si presta per esempio a salse particolarissime. Come trovo che gli italiani sottovalutano il sedano: è croccante, ha un’acqua preziosa e fa pure bene all’organismo.

Progetti per il nuovo decennio?

Probabilmente un ristorante a Dubai: la famiglia reale ci ha proposto di diventare loro soci e mi pare un’opportunità da non perdere. Basta questo, perché voglio dedicare tempo alla mia famiglia e non ho più l’età per incasinarmi troppo. Al massimo, ma proprio al massimo, un locale a Rio de Janeiro che sta nel cuore di Clarence. Ma non lascerò Milano: voglio bene a questa città perché mi ha dato tutto e mi sta facendo vivere il sogno coltivato quando facevo l’aiuto cuoco in Giappone.

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