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Un gioco di squadra: così assicuriamo l'eredità di Aimo e…

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Storie di eccellenza

Un gioco di squadra: così assicuriamo l'eredità di Aimo e Nadia

«Prima c’erano Aimo e Nadia, poi ci siamo stati anche noi, oggi ci siamo noi, oggi c’è il Luogo di Aimo e Nadia». Stefania Moroni ci spiega con una frase il processo di trasformazione durato anni, il passaggio generazionale da quello che era il ristorante dei suoi genitori a ciò che, invece, il suo ristorante rappresenta oggi.

Da dove parte la storia di Aimo e Nadia?

Mio padre e mia madre arrivarono a Milano dalla Toscana che erano ancora dei ragazzini. Erano emigranti veri, ho ritrovato un documento che lo testimonia, un permesso d’immigrazione a nome di mia madre, un documento che sottolinea come il mondo di allora fosse completamente diverso da quello di oggi, e non stiamo parlando di tre secoli fa. Era appena terminata la guerra, loro erano emigranti per necessità, la fine degli anni ’40 e inizio anni ’50 erano difficili per chiunque. Mio padre in quei primi anni si è impegnato a fare un po’ di tutto: non c’era molta scelta e i primissimi anni sono stati davvero difficili.
Poi, nel 1955, mia nonna paterna cominciò a gestire la cucina di un piccolo ristorante. Fu il primo passo di quella che sarebbe stata la strada intrapresa dalla nostra famiglia. Nel 1962 il passo si fa più grande: decisero di prendere in gestione una trattoria in via Montecuccoli.
Siamo ancora qui, cinquantatré anni dopo.

Stefania Moroni

E Stefania come ha vissuto il percorso di crescita dei suoi genitori?

I racconti del passato sono racconti difficili. Proprio per questo quando Aimo, mio padre, ha compiuto cinquant’anni, nel 1996, gli ho organizzato una festa a sorpresa con clienti ed amici. Volevo che quel momento rappresentasse una nuova memoria, rispetto a quella del suo arrivo a Milano nell’aprile del 1946. Ho pensato ad una festa, che sanciva il percorso fatto e il grande affetto e stima che negli anni avevano costruito, una sorta di episodio numero due della nostra famiglia, che, tuttavia, proprio dalle fatiche iniziali, dall’episodio uno, ha preso lo spunto per costruire ciò che poi è stato fatto. La voglia di migliorarsi e le tante difficoltà affrontate li ha portati ad impegnarsi, ad investire su se stessi, ad imporsi trasformazioni continue. Loro hanno cominciato dando da mangiare a pranzo agli operai di una fabbrica che era vicina al nostro ristorante. La trattoria trasformata quasi in una mensa. Facevano tre turni, ed offrivano buoni piatti della tradizione toscana. Mia nonna, che inizialmente si occupava della cucina con mio padre, dopo qualche anno ha deciso di lasciare e, da quel momento, è toccato ai miei genitori: è cosi che hanno cominciato il loro percorso.

Da dove sono partiti?

Dalle cose che sapevano fare. Dai sapori di casa, dai prodotti della loro terra. Mio padre ha cercato di far conoscere a tutti il valore del cibo a prescindere dall’elemento di povertà. Mi spiego meglio: loro hanno sempre lavorato sull’idea che il prodotto, a prescindere dalla sua natura, avesse e mantenesse la propria dignità. L’ idea è di non privare il prodotto della povertà, di non arricchirlo in maniera artificiosa.
Mio padre ha continuato a dire per anni che la cucina non è ricca o povera, ma è buona.
Questo non è uno slogan, ma per lui tale definizione è rappresentativa del suo modo di fare e pensare la cucina; per lui ha un significato estremamente preciso, è un punto fondamentale del suo percorso: non è un caso che uno dei suoi piatti memorabili, quello spesso raccontato anche nelle interviste, fosse la “Pappa al Pomodoro di Aimo”, un piatto semplice, fatto con prodotti semplici, ma con quel pomodoro, con quel pane, con quell’olio…
Tutti pensano di conoscere questi prodotti perché sono così comuni, ma il lavoro fatto da Aimo e Nadia è stato di perfezionarli a tal punto che i clienti, dopo averli mangiati, raccontavano di non averli mai assaporati così.

E’ questo che lì ha portati ad avere successo a ricevere due stelle dalla Michelin?

Su questo si fonda il successo che ha portato il pubblico, il grande pubblico a cercare sempre di più il nostro ristorante. Il passaparola è stato il nostro miglior strumento di marketing, il migliore spot pubblicitario: i piatti prodotti da Aimo e Nadia, hanno parlato per loro, li hanno raccontati così bene che non c’è stato bisogno di fare altro. Mio padre poi è sempre stato molto abile nelle relazioni. Ha insegnato a tutti noi il valore dell’accoglienza, ad essere presenti affettivamente con le persone, ha sempre fatto in modo che i suoi clienti da noi si sentissero tra amici, non in famiglia, la famiglia è un’altra cosa, ma tra amici sì, perché con gli amici, quelli veri, si sta sempre bene.
Il bello di tutto ciò, è che il passaggio generazionale che abbiamo vissuto al nostro ristorante è andato di pari passo a quello della nostra clientela. I bambini di qualche anno fa sono cresciuti, un po’ come me. Quelli che venivano a mangiare da noi con i loro genitori, oggi vengono a mangiare da noi con le famiglie che hanno costruito, con i loro figli e questo ci riempie di orgoglio, ci fa comprendere che il percorso fatto è quello giusto.

Cambiare passo, sostituire una generazione con l’altra, in un’azienda non è mai semplice, ancor meno in un ristorante, dove i protagonisti di ieri erano gli artefici assoluti del successo, i creatori dei piatti tanto cercati. Voi come siete riusciti a superare tutto questo?

Il nostro è stato un percorso lungo, durato anni; molto complesso. Ma se c’è una cosa che davvero mi hanno insegnato mio padre e mia madre è che le sfide bisogna affrontarle, giocarsele e provare a vincerle. Ed io l’ho fatto.
Prima di tutto ho investito sulle persone. Dieci anni fa ho richiamato un ragazzo che aveva gia lavorato con noi, Alessandro Negrini. E’ tornato portando con se un nuovo imprinting culturale, dopo le esperienze che aveva fatto anche all’estero, ed un collega, Fabio Pisani. Il loro arrivo mi ha fatto riflettere, ho pensato che fosse utile avere in cucina due persone invece che una. Un po’ com’era stato per mio padre e mia madre.
In quel modo la cucina nasce dalla dialettica, dal confronto tra due punti di vista, dallo scambio, dall’accettare il giudizio dell’altro. Questo proprio come metodo. Così ho lavorato sul team e, insieme ai due cuochi, ho individuato le persone giuste anche per la gestione della sala, anche lì sono in due, dove sono arrivati Nicola Dell’Agnolo e Federico Graziani. Tutti assieme stiamo portando avanti il ristorante, ecco perché dicevo prima che oggi “ci siamo noi”.
Siamo riusciti a fare il cambio di passo. Per cinque anni c’è stato un team-building a sette, i nostri nuovi collaboratori, Aimo e Nadia e me. Non è stato facile, devo ammetterlo, sono stati cinque anni vissuti pericolosamente, ma oggi abbiamo regalato continuità al progetto che i miei genitori, che mia nonna, avevano cominciato oltre cinquant’anni fa.

C’è dell’altro però. Nuove esperienze legate al mondo della gastronomia e non solo?

E’ vero. Ho voluto dare un segnale nuovo a questo Luogo, così ho fatto un’operazione culturale, collaborando con un artista straordinario come Paolo Ferrari. Ho portato da noi la sua ricchezza di pensiero, con i suo quadri, con le sue opere.

Come si lega tutto ciò con la ristorazione?

C’è un’affinità profonda tra le due cose, nel gesto ‘mentale’ con cui lui pensa le opere e noi i nostri piatti. C’è un gesto che è quello che indica alla nostra mano come suonare una nota, disegnare su una tela, così come è la nostra mano ad aggiungere una certo ingrediente su un piatto dosandolo in modo corretto. Quel gesto è rispetto della materia, è cura dell’attimo presente. La nostra cucina funziona se si è presenti a ciò che si sta facendo, è fondamentale che ogni gesto non sia scontato o banale. L’artista lo chiama un gesto ‘assente’ nel senso che è un gesto che richiede cura, presenza costante, non è la ricetta che cambia, ma sono i particolari impercettibili che permettono di raggiungere risultati impensabili e questo ancor più quando si preparano i piatti più semplici, quelli all’apparenza semplici, ma che richiedono maggior precisione e attenzione.
La cucina come viene fatta è un percorso culturale ed io lo racconto non solo attraverso i piatti ma anche attraverso questo luogo che cambia.

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