Proviamo a scherzarci sopra, anche se non si può. Quando c'è di mezzo il biologico, ridere è vietato. Come ogni culto, finiscono per rispettarlo pure gli atei. Un caso tipo, per capirci meglio. La ragazza del negozio biologico sotto casa ti guarda serissima: «Solo questo?». Hai in mano mezzo sedano rapa. Sorridi a fatica: «Sì». Lei niente. Ha capito che non sei un credente. Ridere è vietato, figuriamoci in momenti come questo. Butti gli occhi sul volantino vicino alla cassa. Lei ti marca stretto. «Le interessa la nostra cassetta settimanale di frutta e verdura?». Non sai cosa fare. Cosa dire. Forza, reagisci. Dimostra che sì, ti interessa. «Mmm… No, grazie. Vado al mercato». Pazzo. Perché l'hai fatto. Mercato uguale coltivazione intensiva, serre a quaranta gradi, grande distribuzione spacciata per chilometro zero, fragole a gennaio, italiani che non vogliono più raccogliere i pomodori (vogliono raccogliere solo quelli cresciuti al sole dei poderi umbri, se mai). Sei spacciato. La ragazza batte lo scontrino. Ti guarda fisso. «Ottantacinque centesimi». Ti senti un pezzente. Da quanto tempo in questo negozio non si spendeva così poco? Lei ancora non sorride, tu però sei salvo. Pensi: «Qui non ci verrò mai più».
E invece ci tornerai ancora, e ancora, e ancora. Perché, anche se non ci credi, il biologico è tutto intorno a te, come recitava un vecchio spot. Non hai scampo, e un po' ti piace. A Milano, una volta, venivano su banche ad ogni angolo di strada, oggi aprono botteghe con cassette di patate viola e vasi di curcuma fresca (sì: esiste la curcuma fresca). Dopo decenni abbiamo scoperto che la pizza deve essere esclusivamente gourmet (vale a dire con la salsa di pomodoro e la mozzarella buone: in Italia, pensa un po'), ormai ci tocca certificare qualsiasi altra cosa. Il succo di mela e il formaggio di capra, le barrette di sesamo e lo champagne – i negozi bio lo vendono durante le feste, cascarci è un attimo: oggigiorno affermare davanti agli amici «È senza solfiti» vale più di mille barrique.
Osho, o del culto della libertà (e del mercato)
Quest'anno Netflix ha prodotto una serie magnifica: Wild Wild Country. Racconta la fuga di Bhagwan Shree Rajneesh, poi noto come Osho, dall'India al deserto dell'Oregon: per ragioni fiscali trasferisce lì la più grande comunità di suoi seguaci. Il braccio destro del santone, Ma Anand Sheela, conferma tra le righe ciò che è sotto gli occhi di tutti, con un misto di ingenuità e malizia. Parafrasando: non c'è più spazio per le religioni che vogliono privarci di tutto, il nostro guru dice siate liberi, fate l'amore, girate in Rolls Royce (ci girava solo lui, ma è un dettaglio). Conferma un'altra cosa: diffondere un culto è avere, prima di tutto, il senso del mercato. Capire quale buco riempire. Il biologico è, per sillogismo, una religione in piena regola.
Il problema è che facciamo confusione. Non è sempre la stessa cosa, biologici vegani chilometrozeristi e via elencando. Verissimo. Però la sintesi estrema è che sembra tutta una grande chiesa, che passa dalle gallette di riso e arriva fino alla ribolla biodinamica. Ci sono i fondamentalisti (campo vegan) come Sheela: l'ultima è la vlogger oltranzista Nasim Aghdam, che ha sparato negli uffici di YouTube prima di spararsi lei stessa; accusava la società di non averle liquidato le sue video-denunce. Ci sono gli intellettuali di riferimento (campo animalista) come Bhagwan: è in lavorazione il documentario tratto da Eating Animals di Jonathan Safran Foer (in italiano ha un titolo ben più moralista: Se niente importa), voce narrante Natalie Portman, una che tiene a ricordare che non mangia nulla di derivazione animale, anche se la stanno intervistando su Star Wars. C'è la propaganda dedicata come a Rajneeshpuram, la comune di Osho: in tv gira la réclame di un marchio di «agricoltori biologici»; protagonista è tale Elena, che ha scelto di salvare l'ambiente mangiando pasta al sugo (ma un sugo politicamente corretto), in sottofondo c'è una musica epica stile Il gladiatore. Esistono anche dei risvolti positivi per tutti noi che, inevitabilmente, finiamo dentro questa chiesa. Anche solo per accendere un cero così, una volta, non si sa mai.
In fissa per le pastinache
Un altro caso tipo, stavolta con il lieto fine. Quest'anno ti è presa la fissa delle pastinache (andate a googlare). Le hai mangiate per caso accompagnate a un Sunday roast a Bath, non puoi più farne a meno. Trovarle da noi è impossibile. Poi, un lampo: il negozio bio! Ecco a cosa serve! Ne giri due o tre, scopri che una catena le vende. Non sempre. È un prodotto così bio che sfugge persino all'inventario dei negozi bio. La seconda volta torni nello stesso posto, le pastinache ci sono ancora, solo un po' mollicce. Una tizia è lì che le tasta come te. Vi lamentate insieme, vi capite in un attimo: seguaci dello stesso culto. Finite a darvi consigli, scambiarvi ricette. Ti vedi da fuori: sei diventato il cliente tipo di un negozio bio. La ragazza alla cassa ti osserva da lontano. Quando vai a pagare le tue pastinache mollicce – quattro euro e sessanta, fai miglioramenti – finalmente succede. La guardi e sì, è proprio vero: sta sorridendo.
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