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Dossier | N. 57 articoli Il mondo del caffè

Il campione di brewer Galtieri: «Non chiamatemi barista. Sono lo chef del caffè»

Nel 2018 ha vinto la Brewers Cup italiana, qualificandosi per il campionato mondiale a Boston. E ad aprile negli Usa Alessandro Galtieri si è piazzato sul podio dei Brewer, secondo italiano a raggiungere la vetta (nel 2014, a Rimini, Rubens Gardelli aveva conquistato l'argento).

A leggere l'albo d'oro di World Barista Championship & World Brewers Cup, saltano all'occhio i piazzamenti italiani nella disciplina che comprende tutte le preparazioni che non sono espresso (quindi senza l'energia meccanica della pressione), mentre tra i baristi il Belpaese non ha mai superato il quarto posto. “Capisco la perplessità, perché l'Italia è la culla dell'espresso - replica il campione - eppure forse il problema è proprio l'influenza forte della nostra tradizione. Diciamo che siamo un pochino invischiati nella nostra cultura della tazzina al bar, mentre in questi concorsi di respiro internazionale si esce dallo stile di un paese e si valuta la qualità intrinseca senza compromessi culturali. E noi siamo paradossalmente più indietro”.

I parametri di valutazione sono riferiti al caffè e alla tecnica, ma anche all'innovazione nella ricerca di modalità per esaltare al massimo il prodotto. E poi ci sono l'abilità sensoriale nel descrivere il caffè, la piacevolezza dell'esposizione e naturalmente il servizio, importante per un barista. Infine è necessario saper replicare quel profilo sensoriale in una situazione da bar.

Il caffè come il vino, presto la carta di degustazione
Come si arriva dunque al top? “Con una grande passione”, replica Galtieri, partito nel 1997 con il suo piccolo bar Aroma a Bologna, in via Porta Nuova, dove ancora oggi torna dietro al bancone quando i riflettori dei concorsi si spengono e quando non sta facendo formazione.

“Ho iniziato tanti anni fa provando a proporre una diversificazione dei prodotti, non più solo l'espresso ma gli espressi - racconta -. I luoghi comuni sul caffè allora erano totalizzanti in Italia, ma io mi sono appassionato e documentato, ho seguito corsi e mi sono agganciato alla community Specialty Coffee, nata per promuovere la cultura del caffè non legata a un brand, ma alla qualità vera. E poi sono diventato trainer”.

La trasmissione di questa cultura al cliente comune non è immediata. “Certo percepisce chiaramente che c'è qualcosa di diverso - dice Galtieri - ma è un processo evolutivo simile a quello del vino. Quando si è iniziato a parlare di wine bar o di enoteche con un sommelier interno, con competenze adeguate a guidare il cliente, c'è stato il salto di qualità. Prima al massimo si sceglieva vino bianco o rosso, poi son nate le carte dei vini. Questo sta succedendo nel caffè: c'è ancora il classico ordine «Un caffè», ma a questo si affiancano esperienze sensoriali legate alla creatività del barista, probabilmente più simili a quelle che si cercano in un ristorante stellato”.

Anche Starbucks fa i conti con l'Italia: l’espresso costa 1,8 euro
L'Italia ha seguito un modello che è partito negli anni Settanta dagli Stati Uniti, dove avevano raggiunto livelli di qualità talmente bassi che qualcuno ha voluto rompere lo schema e ha iniziato a proporre il caffè come un prodotto qualificato. Il movimento Specialty Coffee ha preso piede in Europa negli anni Novanta e oggi è globale. “La cosa più straordinaria è che questa piccola comunità ha influenzato l'industria - evidenzia il brewer bolognese -. Adesso ci sono aziende con produzione elevatissima che stanno creando dei reparti specialty e il caffè non vive più solo per la marca. È stato scardinato il sistema della commodity e si cerca una qualità superiore, dai grani alle capsule”. Certo in Italia c'è una sorta di resistenza culturale, ma “non metterei il nostro Paese nell'angolo dei cattivi. Ci sono tantissimi piccoli torrefattori che si sono dedicati fin dall'inizio a questo movimento e hanno fatto cose straordinarie a livello internazionale. Certo il consumatore va ancor educato e in fin dei conti anche Starbucks alla roastery di Milano è costretto a vendere l'espresso a 1,80 euro. In fondo in Asia è più facile: non considerano il caffè una cosa comune, quotidiana, dunque diventa un lusso e quasi un elemento di stile occidentale. E poi la grande cultura del tè porta a rivolgere grande attenzione alla qualità”.

Baristi come chef e mixologist
Oggi Galtieri si divide tra il piccolo bar a Bologna, che gestisce con la compagna, l'attività formativa in Italia e all'estero e le collaborazioni: con torrefattori che vogliono evolvere il proprio prodotto e con produttori di macchine per espresso che vogliono testarle con competenze specifiche.

La prospettiva sembra positiva per i baristi e brewer. Con l'evoluzione del mercato (e la diffusione di catene e caffetterie specializzate) e con la crescita di consapevolezza del consumatore, anche la figura del professionista sta cambiando. “Il caffè è un semilavorato - evidenzia il brewer -. Nel vino fa tutto il produttore e al ristorante diventano centrali il servizio, lo stile e la conoscenza. Il caffè bisogna prepararlo, il barista assomiglia più a uno chef che interpreta la materia prima ed estrae la bevanda. Anche nelle catene è molto importante la figura del barista, per la quale si cerca una uniformità di risultato. La replicabilità del prodotto-caffè diventa infatti la bandiera di un retailer”.

Se dunque la figura del barista (o brewer) sta cambiando e muove nella direzione dello chef o del mixologist, il futuro, per i giovani che sperimentano, si profila interessante.

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