Ogni salto d’epoca rimette in fibrillazione e in discussione quello che noi, figli del ’900, denominiamo welfare state. Facendo riferimento a quella storiografia del secolo lungo, che parte da Bismarck e arriva alla caduta del muro, che ha lasciato crepe vistose nello stato provvidenza e regolatore dall’una e dall’altra parte. Si ragiona di secondo welfare e di welfare aziendale con implicazioni per imprese, relazioni industriali, parti sociali e questione sociale. A ben vedere a questo rimanda la parola chiave welfare senza aggettivazioni. Come la lunga deriva della storia dimostra. Dalla Firenze dei banchieri e di Savonarola e delle leggi sull’usura e sul lusso, che posero allora il tema della ridistribuzione dai ricchi ai poveri, da cui un mecenatismo in ospedali e opere che ancora ammiriamo nelle città e nelle pinacoteche del Rinascimento.
E che dire del passaggio dal lavoro agricolo a quello industriale? Con tanto di esodo dal contado alla città, di editti vittoriani contro i poveri che videro nascere forme di autorganizzazione e di welfare come le mutue, le cooperative di consumo e le prime leghe di operai e contadini, anticipatorie del sindacato del ’900.
Anche per il welfare aziendale val la pena scavare nelle nostra storia di impresa e di capitalismo di territorio che rimanda a ben prima delle codificate esperienze nella letteratura aziendale internazionale, di responsabilità sociale d’impresa, di corporate benefit o di impact social bank. Nel nostro secolo breve del dopoguerrra la questione del welfare aziendale la pose con forza e con una strategia da fordismo dolce, altra dal fordismo hard di Valletta, Adriano Olivetti. Negli stabilimenti di Ivrea istituì un articolato sistema di servizi, dall’assistenza alla maternità e all’infanzia, all’assistenza sanitaria e sociale all’istruzione professionale e ai servizi culturali. I suoi discorsi e i suoi scritti, Ai lavoratori e Le fabbriche di bene, sono eterotopicamente pervasi da una filosofia di cogestione operosa attuale per l’oggi, inattuale allora, ove prevalse il paradigma conflittuale capitale/lavoro e Stato in mezzo.
Non fu l’unico caso. Anche se segnato da una visione paternalistica di welfare aziendale, basta ricordare la “città sociale” voluta da Gaetano Marzotto a Valdagno, più dall’alto che dal basso, con le case dei dirigenti poi quelle degli impiegati e infine le case popolari per gli operai. E la politica di Mattei nelle relazioni industriali, tra i primi a capire che il benessere della vita privata e lavorativa delle persone costituisce un vantaggio competitivo e uno strumento di condivisione degli obiettivi aziendali.
Ma occorre tener conto anche delle esperienze di territorio: i distretti e l’evoluzione di quelle forme di prime mutue e cooperative in un robusto tessuto di imprese, che caratterizzano il nostro capitalismo. Nei distretti sia Becattini che Bagnasco ritrovano, partendo dall’antropologia del fare impresa come progetto di vita, tracce di comunità che rimandano a un welfare aziendale informale, mai codificato, fatto di scambi di saperi contestuali e formali e di una solidarietà dentro le mura delle piccole imprese tra padroncini e operai. Così come sono importanti le tracce di welfare aziendale evolute in forme mutualistiche e cooperative.
Senza Olivetti non potremmo parlare oggi di esperienze di welfare aziendale come Ferrero o Lavazza, senza Marzotto non potremmo stracitare il welfare aziendale di Del Vecchio e Luxottica, senza Mattei e il suo innovare relazioni industriali non potremmo fare riferimento al recente contratto di Federmeccanica che ha negoziato il welfare aziendale. Senza i distretti e le tracce di comunità locali non potremmo citare la collina di Cucinelli a Solomeo come una comunità operosa. E senza le radici nella cooperazione non potremmo citare Conad che imposta la distribuzione commerciale avendo nella comunità locale e nella prossimità fattori di coesione e competizione.
Ma dato a Cesare quel che è di Cesare, con la raccomandazione che, a proposito di welfare aziendale, abbiamo del nostro nella storia sociale ed economica, l’andare avanti pone non pochi problemi. Il secondo welfare, a fronte della crisi del primo, perde il carattere di sola supplenza all’azione statale per assumere un ruolo di complementarietà in espansione. Non a caso la Legge di stabilità 2016 ne fornisce ulteriore impulso con la detassazione dei premi di produzione corrisposti in servizi per i dipendenti.
Le ricerche più ottimiste dicono che il 50% delle imprese consultate dichiara di avere un piano di welfare, ma solo metà di queste ne ha già introdotta qualche pratica e, di questo 25%, tante sono le grandi, meno le medie, e poche le piccole. Con in più il dibattito aperto nelle relazioni industriali, sulla negoziazione di secondo livello e sulla unitarietà dell’offerta dall’alto o sulla bilateralità negoziata con il sindacato. Certo per chi è grande gruppo o media impresa, immerso nell’atmosfera di Industria 4.0, negoziare formazione, lavoro ibrido, lavoro agile e in più scambiare servizi è facile. Magari lasciando al primo welfare gli espulsi dalla robotica e gli esuberi, come è lì a dimostrare la crisi delle banche. Ma per i tanti, il 60% delle imprese industriali in metamorfosi nelle filiere e nei distretti, è ancora un aspettare Godot.
Il tutto è questione aperta per i sindacati, “parliamone purché sia materia di contrattazione tra le parti”, per le associazioni datoriali, tra grandi e piccoli e le microimprese con meno di 10 addetti, dove il welfare aziendale può codificare un divario di prestazioni e di benefit. Ma anche per i fornitori di servizi nel sociale, come il terzo settore, che si pongono il problema se entrare o meno dentro le mura dell’impresa ove già operano fornitori di consulenze e servizi privati, senza dimenticare le strutture pubbliche locali che operano in prossimità delle imprese sul territorio.
A macchia di leopardo sono in atto interessanti sperimentazioni tra imprese, soggetti pubblici e fornitori sociali e privati di prestazioni di welfare. Di fronte ai grandi cambiamenti nel modo di produrre si diceva un tempo “è il postfordismo bellezza”. Il welfare aziendale ci fa dire che la sharing economy che avanza pone il tema della condivisione e della cogestione. Parliamone.
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