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Libia, ecco perché il generale Haftar ricatta l’Italia (e…

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richiesta a Roma: rompa embargo su armi

Libia, ecco perché il generale Haftar ricatta l’Italia (e dove stiamo sbagliando)

Per l'Italia è la “quarta sponda” è il banco di prova di una politica estera che ogni giorno presenta il suo conto salato, non soltanto in termini politici, economici e umani ma anche di dignità nazionale. Una volta era il Colonnello Gheddafi che ricattava l'Italia adesso è il generale Khalifa Haftar che in un'intervista all'Ansa chiede al presidente del consiglio Renzi di convincere la comunità internazionale «a rimuovere l'embargo sulle armi» per combattere la minaccia del Califfato. Se ci appoggiate - questo il ragionamento del controverso Haftar - sistemeremo la Libia rimettendo in vigore i vecchi trattati per constrastare l'immigrazione clandestina. Davvero un'offerta da non perdere. Ma con quali garanzie?

Haftar ha un obiettivo dichiarato: mandare all'aria i negoziati in corso con la mediazione dell'Onu e dell'Europa perché pensa di potere vincere con la forza la partita contro il governo di Tripoli. In realtà i mezzi il generale, appena nominato comandante in capo delle forze di Tobruk, forse li avrebbe già: all'Italia chiede una sorta di “cappello politico” perché delle tante potenze coinvolte nella guerra per procura in corso è paradossalmente quella di cui i libici diffidano meno. Mentre non hanno alcuna fiducia nell'Egitto, principale sponsor del generale e sospettato di avere mire sulle risorse economiche ed energetiche della Cirenaica.

Haftar vuole che l'Italia, abbandonando al suo destino il governo della Tripolitania dove abbiamo il 70% dei nostri interessi energetici, si schieri a favore dell'esecutivo di Tobruk, riconosciuto sì dalla comunità internazionale ma eletto in una consultazione a giugno scorso dove ha partecipato il 30% dell'elettorato.

Khalifa Haftar, generale di Gheddafi nella guerra del Chad, è già sostenuto militarmente in maniera diretta dall'Egitto di Abdel Fattah Al Sisi che a sua volta conta sull'appoggio della Francia, della Russia e soprattutto su quello finanziario dell'Arabia Saudita.

L'obiettivo di questa coalizione è combattere il gruppo terroristico noto come Stato islamico o Isis, ma soprattutto far fuori i Fratelli Musulmani, nemici giurati del Cairo e di Riad. La Francia ha un ruolo importante per le forniture di armi all'Egitto - ha appena venduto caccia Rafale al Cairo per 5 miliardi di euro - mentre Mosca ha stretto importanti patti di assistenza militare con Al Sisi e Putin qualche settimana fa è stato accolto dalla stampa ufficiale egiziana come «un eroe dei nostri tempi».

Sul fronte opposto c'è il governo di Tripoli, rappresentato dal fronte islamico di Alba Libica alleato con le milizie della città di Misurata. Questa infida coalizione conta sul sostegno di Qatar e Turchia, schierate con i Fratelli Musulmani contro l'Egitto e l'Arabia Saudita. Una guerra tra musulmani e all'interno del mondo sunnita dove la posta in palio è ideologica, religiosa e naturalmente petrolifera, legata alle ingenti risorse della Libia.

Noi dove stiamo? Non si sa bene. Nel 2011 siamo stati colti di sorpresa dalla rivolta di Bengasi e dai raid di francesi e anglosassoni, adesso tendiamo a favorire i negoziati dell'Onu tra le parti, destinati evidentemente a fallire, e siamo impreparati davanti alle richieste di Haftar e dell'Egitto.

Domanda: ma cosa è andato a fare a Mosca e al Cairo il nostro presidente del Consiglio? Il risultato è che adesso lui e l'Italia sono messi con le spalle al muro da un aut aut posto da un ambiguo e poco affidabile generale libico che intende legittimarsi e a sua volta legittimare l'intervento militare egiziano. Prima abbiamo sbagliato ad acconsentire a far fuori Gheddafi, con cui avevamo firmato trattati internazionali vincolanti, ora dovremmo cercare almeno di proteggere i nostri interessi nazionali. Chi ha il coraggio adesso di firmare accordi con il generale Haftar?

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