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Barconi della morte, affondarli o no? Per scoraggiare i trafficanti…

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emergenza nel Mediterraneo

Barconi della morte, affondarli o no? Per scoraggiare i trafficanti meno rischiosi i respingimenti assistiti

L'Unione europea entrerà in guerra contro i trafficanti di esseri umani che gestiscono i flussi migratori illeciti dalla Libia? In attesa di decisioni concrete da Bruxelles il “decalogo” presentato dall'alto Commissario per le Migrazioni, Dimitris Avramopoulos, e approvato dai ministri degli Esteri e degli Interni contiene esplicite indicazioni che sottintendono l'uso della forza. Oltre al rafforzamento della missione europea di sorveglianza marittima Triton e dello sforzo d'intelligence il programma europeo prevede un “sistematico sforzo” per sequestrare e distruggere i barconi utilizzati dai migranti e gestiti da quelli che Matteo Renzi ha definito gli “schiavisti del XXI secolo”.

La distruzione dei barconi può essere effettuata in due modi: affondando o sequestrando quelli già utilizzati dai migranti soccorsi in mare (pratica già diffusa) o andando sulle coste libiche a distruggerli prima che vengano messi in mare carichi di persone.

Quest'ultima operazione richiederebbe un consistente sforzo militare innanzitutto in termini di ricognizione e intelligence per localizzare imbarcazioni, a scafo rigido o gommoni, di dimensioni comunque contenute e facilmente occultabili.

La distruzione delle imbarcazioni può essere effettuata dalle forze italiane o europee con raid aerei affidati ad aerei da combattimento o elicotteri oppure con incursioni a terra affidate a unità di fanteria elitrasportate o anfibie o a forze speciali. In ogni caso i rischi più elevati sono di trovarsi con le truppe coinvolte in scontri a fuoco con le milizie dei trafficanti che (non va dimenticato) sono strettamente colluse con i gruppi terroristici islamici, incluso lo Stato Islamico. Quante perdite in battaglia sarebbero sopportabili per i Paesi europei?

Rischi di “danni collaterali”
L'impiego di ordigni lanciati da aerei o elicotteri come l'utilizzo delle artiglierie navali rischierebbe di provocare “danni collaterali”, cioè di distruggere i barconi danneggiando abitazioni o uccidendo e ferendo innocenti. Lo stesso problema si rischierebbe utilizzando i droni anche se i Predator italiani, come quelli in dotazione a francesi e olandesi, sono disarmati dal momento che Washington ha finora concesso i kit di armamento solo ai velivoli teleguidati britannici.

Si può stare certi che le organizzazioni criminali in Libia non esiterebbero a posizionare le barche vicino agli alloggi dei migranti e a farsi scudo dei civili. Le similitudini tra la missione da varare in Libia e l'Operazione Atalanta contro la pirateria somala, evocate negli ambienti europei sono piuttosto discutibili.

Gli spazi oceanici di fronte alle coste somale non sono paragonabili alle acque ristrette del Canale di Sicilia e l'emergenza piratesca è stata risolta soprattutto mettendo guardie armate su ogni mercantile, poiché le navi da guerra da sole non erano in grado di garantire la sicurezza in un'area marittima così vasta.

Il precedente
Quanto alla distruzione delle imbarcazioni utilizzate dai criminali proprio l'esempio di Atalanta mette in luce tutti i limiti dell'iniziativa che si vorrebbe varare in Libia. Gli elicotteri delle flotte europee distrussero sulle spiagge diversi barchini utilizzati dai pirati ma dovettero cessare le operazioni quando le diverse “tortughe” minacciarono di uccidere i marinai delle navi catturate se vi fossero stati altri attacchi. Facile quindi immaginare che anche i trafficanti libici non esiterebbero a minacciare di uccidere dei migranti in caso di attacchi europei alle loro imbarcazioni, la cui penuria costituisce oggi l'unica limitazione ai flussi di migranti verso le coste italiane.

Da mesi infatti si segnalano furti di imbarcazioni in tutto il Nord Africa, mentre indiscrezioni riferiscono di tanti piccoli cantieri navali che lavorano alacremente in Libia e Tunisia per produrre gusci in legno per i trafficanti.

Due ipotesi a confronto: blocco navale e respingimenti assistiti
Anche l'ipotesi del blocco navale, che in termini giuridici è un atto di guerra, non ha molto senso poiché l'obiettivo non è certo quello di impedire l'accesso o l'uscita di navi dai porti libici ma solo che i barconi di migranti prendano il mare.

Meglio allora parlare di “respingimenti assistiti” che sarebbero possibili impiegando la Marina Militare a ridosso della costa della Tripolitania occidentale, tra la capitale e il confine tunisino, da dove salpano i barconi, per soccorrere immediatamente i migranti evitando altre tragedie e naufragi per poi sbarcarli con i mezzi militari e sotto scorta sulla costa libica.

Un'operazione alla portata della forze navali italiane ed europee che richiederebbe di mettere in sicurezza un tratto di costa mantenendovi però a terra militari solo il tempo strettamente necessario a sbarcare i migranti. Certo non si tratterebbe di un'operazione di facile esecuzione, ma le forze militari sono in grado di esprimere la necessaria deterrenza nei confronti di banditi e miliziani. In questo modo, oltre a salvare migliaia di vite, verrebbero scoraggiati i flussi migratori poiché nessuno rischierebbe più la vita e pagherebbe migliaia di euro per ritrovarsi in Africa riducendo di pari passo gli incassi delle organizzazioni malavitose.

Un'operazione del genere obbligherebbe inoltre le Nazioni Unite a effettuare operazioni umanitarie per rimpatriare i migranti, come il ponte aereo attuato nel 2011 in Tunisia per riportare nei loro Paesi d'origine oltre un milione di lavoratori stranieri fuggiti dalla Libia in guerra.

Il “respingimento assistito” costituirebbe un importante segnale che l'Italia e la Ue non sono più disponibili ad accogliere migranti che si affidano a malavita e terrorismo. Del resto lo stesso direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, ha detto in un'intervista a Le Figaro che «si deve portare soccorso a chi è in pericolo» e «accordare diritto d'asilo» ma «non si deve fare il gioco degli spietati trafficanti d'uomini, disposti a obbligare i migranti a imbarcarsi con il mitra puntato alla schiena». Leggeri ha aggiunto che «i migranti che intraprendono la strada libica ormai arrivano dall'Africa, non più dalla Siria o dall'Iraq» e per lo più «partono per problemi economici, e possono e devono essere rispediti a casa loro».

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