In prima fila sul mausoleo di Lenin, separato da Vladimir Putin solo da un generale carico di medaglie, il 9 maggio Bibi Netanyahu assisteva da ospite d'onore al 73° anniversario della vittoria sovietica sul nazismo. Nella nuova retorica nazionale russa, quella celebrazione e la parata militare sulla Piazza Rossa sono il simbolo più importante delle rinate ambizioni geopolitiche del neo-rieletto presidente.
Il premier israeliano portava sulla giacca il nastro nero e arancione della croce di San Giorgio, l'onorificenza militare più alta dell'epoca zarista, ripristinata da qualche anno. Finita la cerimonia, Netanyahu ha reso onore al milite ignoto sulla vicina piazza del Maneggio, prima di un colloquio lungo e amichevole - dicono le cronache - col suo ospite nelle sale del Cremlino. Era lo stesso premier israeliano che lunedì 14 maggio, settantesimo di fondazione dello stato ebraico, inaugurerà soddisfatto l'apertura dell'ambasciata americana a Gerusalemme: il più grande regalo politico e propagandistico che un presidente degli Stati Uniti potesse fare a Israele. Ci saranno Ivanka Trump e il marito Jared Kushner, l'uomo che nelle intenzioni del presidente e dall'alto della sua inesperienza, dovrebbe trovare la formula per la pace fra israeliani e palestinesi.
Pur riconoscendo sin dall'inizio lo stato d'Israele (Stalin lo fece prima di Truman), la comunità internazionale ha sempre rifiutato di accettare che Gerusalemme ne fosse la capitale. Per questo tutti i paesi, ad eccezione di un paio di isole del pacifico e di qualche stato centro-americano, hanno le ambasciate a Tel Aviv. In altri tempi il trasloco americano avrebbe provocato una nuova intifada palestinese e forse un'altra guerra arabo-israeliana. Oggi non più: ci saranno manifestazioni, forse alla frontiera di Gaza moriranno altri ragazzi. Ma i palestinesi sono troppo stremati, privi d'illusioni e guidati da leader senza profilo per sostenere una grande rivolta.
Più che l'ambasciata americana, sarà la Nakba, la catastrofe, a mobilitare i palestinesi di Gaza e di Cisgiordania, con manifestazioni, scontri e vittime: si segnalano già due palestinesi morti e un centinaio di feriti. Perché il giorno in cui gli israeliani festeggiano l'indipendenza, i palestinesi ricordano l'inizio della loro tragedia di popolo errante e senza patria.
Il Medio Oriente, tuttavia, non sarà mobilitato dal trasloco americano né dalla Nakba. Il mondo arabo è troppo impegnato per alzare di nuovo la bandiera della causa palestinese: guerre civili in Siria, Yemen e Libia; importanti resti sparsi dell'Isis ancora da eliminare; società ed economie da ricostruire dopo le illusioni delle primavere e il caos che ne è seguito quasi ovunque. Re, emiri, vecchi e nuovi rais avevano sempre usato la Palestina per distogliere le opinioni pubbliche dalla mediocrità del loro governare. Ora questa finzione è superflua. Il Medio Oriente è cambiato, è diventato così confuso da far rimpiangere gli anni delle guerre arabo-israeliane nelle quali tutti recitavano un ruolo stabilito e prevedibile.
Forse c'è perfino nostalgia della Guerra fredda che faceva da cornice ai conflitti mediorientali, asiatici, africani e latino-americani. E' difficile che, complimentandosi per l'uscita dall'accordo sul nucleare iraniano, Netanyahu non abbia detto a Trump di essere stato invitato a Mosca come ospite d'onore alle celebrazioni di Mosca. E' anche difficile che gli iraniani non avessero anticipato all'alleato russo l'imminente attacco missilistico sul Golan. E che Putin non sapesse che in questi casi gli israeliani colpiscono duramente. Gli S-400, il sistema missilistico antiaereo che Putin ha fatto installare in Siria per proteggere i soldati di Bashar Assad, possono compromettere la superiorità strategica dell'aviazione israeliana nella regione. Quelle armi sono controllate dai russi. Ma cosa accadrebbe se israeliani e iraniani – e dunque siriani ed Hezbollah libanese – arrivassero a un conflitto aperto? E' quello che al Cremlino Netanyahu avrà chiesto a Putin.
La sua Russia non è ostile a Israele come lo era l'Urss, grazie alla duttilità diplomatica di Putin e alla realtà storica: 70 anni fa Israele fu fondato da ebrei russi e polacchi, più social-comunisti che liberali. Dopo le migrazioni all'inizio degli anni Novanta, quasi la metà della popolazione ebraica d'Israele è russa. Ci sono città intere dove si parla russo e per molti Putin è un modello politico. Ma gli Stati Uniti restano ancora l'alleato più importante. Così utile che in realtà è più l'America ad essere alleata d'Israele che il contrario: qualcuno in Campidoglio sostiene che Israele sia il cinquantunesimo stato dell'Unione. Il trasloco diplomatico americano è importante. Ma è solo un tassello, il meno dirompente per l'instabilità regionale di oggi. Se l'escalation fra Israele e Iran diventerà guerra, il casus belli sarà il rinnovo delle sanzioni americane a Teheran, non un'ambasciata a Gerusalemme.
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