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Voto Usa, Trump ferma l’onda democratica e fa dimettere Sessions

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rimpasto e nuova agenda internazionale

Voto Usa, Trump ferma l’onda democratica e fa dimettere Sessions

NEW YORK - I democratici hanno vinto la Camera e conquistato governatori. Ma Trump non ha perso. O meglio, il trumpismo ha vinto: gran parte dei 35 seggi in gioco al Senato, dove i repubblicani hanno rafforzato la maggioranza, erano negli stati dell’America profonda. Bibbia e fucile. Campi di mais e white power. Segno che nelle aree rurali degli Stati Uniti è ancora forte il sostegno alle politiche espresse da questo presidente.

Trump ha trasformato il voto di metà mandato in un referendum su se stesso. L’affluenza record senza precedenti significa che è riuscito a muovere i due opposti antagonismi. L’America che viene fuori dal voto di ieri è un paese diviso in due. E non è detto che sia un male. La parola chiave è “bilanciamento”. Molti commentatori parlano del “risultato migliore possibile” per gli Stati Uniti e il mondo. Per questo le Borse festeggiano.

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I democratici avevano bisogno di conquistare 23 seggi per avere il controllo della Camera: ne hanno guadagnati 27. Hanno anche tolto sette poltrone di governatore ai repubblicani: 22 a 25 ora il conto, un successo importante in vista delle presidenziali 2020, con il colore blu che sulla cartina si espande nel Midwest: Michigan, Illinois, Wisconsin, Kansas.

Trump con il Congresso diviso avrà meno capacità di incidere sulla legislazione nazionale. Abbasserà i toni, cercherà di mediare con i democratici che ritrovano lo speaker Nancy Pelosi e una presenza record di oltre 100 donne deputato alla Camera. Il presidente concentrerà i suoi sforzi sull’economia e sulla politica estera. I democratici sono nella posizione di bloccare le politiche presidenziali ma non di far avanzare la propria di agenda. Quindi è probabile che entrambe le parti cercheranno punti di contatto. A partire dal piano per le infrastrutture. Un pacchetto di investimenti che la Casa Bianca ha pronto per il 2019 per riparare e modernizzare strade e ponti e ferrovie. Piano che potrebbe non dispiacere ai democratici, in cambio di concessioni sulla riforma sanitaria di Obama “da non smontare” o in norme pro clima che limitino il potere dell’industria oil & gas e del carbone, tra i maggiori beneficiari delle politiche presidenziali. Così quello che Trump in campagna elettorale ha definiva «il partito dei criminali» da ieri è diventato il partito con il quale «abbiamo molte cose in comune.

È tempo di far le cose insieme e di far sì che il miracolo economico americano continui», ha detto nel post elezioni confermando anche un rimpasto nei vertici dell’amministrazione post midterm. Il primo ad andarsene è il segretario alla Giustizia Jeff Sessions. Un siluramento che si attira gli strali della leader Dem alla camera Nancy Pelosi: «È impossibile leggere il licenziamento dell’attorney general Jeff Sessions come qualcosa di diverso da un altro spudorato tentativo di Donald Trump di minare e mettere fine all’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller», ha twittato, invitando Matthew Whitaker, che ha assunto l’interim, a ricusarsi «per le sue precedenti minacce di minare e indebolire l’indagine». La Pelosi invita anche il Congresso ad intervenire per proteggere l’inchiesta.

La Casa Bianca sperava di arrivare entro la fine del mese alla ratifica del nuovo accordo commerciale con Messico e Canada (Usmca), dovrà attendere il nuovo Congresso a gennaio.

Un altro punto di contatto è la Cina, sia tra repubblicani che democratici c’è allarmismo sulla crescita dell’economia cinese, accusata anche di rubare idee dell’hi-tech Usa. Su questo fronte sia l’amministrazione Trump che la dirigenza cinese si stanno muovendo in direzione di una convergenza. Dopo la telefonata conciliante di Trump a Xi Jinping, il segretario al Tesoro Mnuchin e l’ambasciatore cinese a Washington si sono parlati una sessantina di volte: un canale diretto con il vice premier Liu per preparare l’incontro bilaterale al G 20. Dopo l’ultima ondata di dazi anti cinesi, la Casa Bianca ha inviato una lista di 50 domande al governo di Pechino, che spaziano da temi come sicurezza nazionale, proprietà intellettuale, deficit commerciale, accesso ai mercati. La Cina ha allargato i temi di discussione. Il documento di lavoro ha al momento 142 punti aperti. Il 20% delle domande per Pechino non è negoziabile perché interessa questioni di principio, ma su tutti gli altri temi i cinesi sono pronti ad accettare compromessi. L’intenzione è quella di arrivare a un accordo Usa Cina sui principi commerciali nell’incontro Trump-Xi, lasciando poi da sistemare le questioni sui dettagli. Alla luce di quanto successo nelle urne con il mid term l’accordo con la Cina rappresenterebbe il primo grande successo dell’amministrazione Trump nel nuovo corso. Wall Street ci scommette già per il rally di fine anno.

Riguardo ai rapporti con l’Europa, Trump è il primo presidente americano ostile all’idea dell’Europa unita, istituzione sovranazionale che limita, dal suo punto di vista, la sovranità nazionale. Trump lamenta il deficit commerciale di 100 miliardi di dollari e vorrebbe tassare l’import di auto Ue. Il nuovo quadro con i democratici alla Camera rafforza la parte moderata dei repubblicani che è per il multilateralismo. E con essa anche la possibilità di trovare accordi con il Vecchio continente su basi meno radicali, in nome della vecchia amicizia che lega i due versanti dell’Atlantico.

Trump andrà avanti sulle sanzioni all’Iran, con un approccio punitivo verso Teheran accusata dagli americani di sostenere Hezbollah con un miliardo di finanziamenti l’anno. Rafforzerà il sostegno all’Arabia Saudita, nonostante il caso Khashoggi, e all’amico Israele.

I democratici hanno la possibilità ora di aprire inchieste e ricorsi sulle questioni fiscali, la corruzione e il Russiagate. Il procuratore Mueller che indaga sulla questione si è messo in una sorta di blackout preelettorale: avrà ora mano libera per continuare la sua inchiesta. Ma l’impeachment non è il primo pensiero tra i democratici: solo il 30-40% ritiene sia determinante. Più importante l’economia e che continui ad andare: il piano di stimoli fiscale di Trump da 2mila miliardi ha spinto la crescita del paese ai massimi da un decennio. Per Trump ora sarà più complesso far passare la nuova ondata di tagli fiscali del 10% promessi alle classi medie. Così come la deregulation delle regole finanziarie Dodd-Frank, uno dei punti dell’agenda presidenziale non ancora realizzato e che probabilmente finirà in un cassetto.

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