Ameno di due settimane dal voto europeo, il vicepremier Matteo Salvini è tornato all’attacco su uno dei vecchi bersagli della campagna elettorale: il vincolo del 3% sul deficit, la differenza tra entrate e uscite annuali di uno Stato, imposto dalla Ue ai sensi del Trattato di Maastricht del 1992.
«È un dovere superarlo», ha detto Salvini, dicendosi pronto a forzare la mano anche su un aumento del debito pubblico oltre l’asticella del 130-140%. Salvini ha poi ammorbidito la sua posizione sul debito, salvo mantenere la sua linea sulla violazione del tetto massimo di disavanzo imposto da Bruxelles. La situazione non è inedita.
Quando si è trattato di approvare l’ultima legge di bilancio, nell’autunno 2018, il governo ha ingaggiato un braccio di ferro con la Commissione europeasempre per la minaccia (rientrata) di ignorare le indicazioni della Ue sulla sostenibilità del proprio budget. La Commissione europea teme che l’indebitamento possa spingersi fino al 3,5% del Pil entro il 2020, a meno che non intervengano cambi di rotta sulle politiche fiscali. Ma da dove arriva quel famoso «tre per cento» che scatena tensioni fra Roma e Bruxelles?
Tutta “colpa” di Maastricht
Il tetto del 3% sul deficit rientra fra i cosiddetti parametri di Maastricht, i vincoli di bilancio fissati in occasione
della firma del trattato omonimo nel 1992 ed entrati in vigore il 1 novembre 1993. Il documento ha stabilito la nascita della
Ue e gettato le basi per l’unione monetaria e, in teoria, quella politica. In realtà, in origine, i parametri erano quattro
e riguardavano sia la regolamentazione fiscale (con il 3% del deficit e il 60% del debito) che quella monetaria (tasso di
inflazione non superiore all’1,5% rispetto a quello dei tre paesi che hanno performato meglio nell’anno preso in considerazione
e un tasso di interesse a lungo termine che non superi del 2% il tasso medio di quegli stessi tre paesi). I parametri fiscali
sono stati poi adottati dal Patto di stabilità e crescita, un accordo siglato nel 1997 dai paesi Ue per attuare il controllo
di bilancio e dare un seguito alle linee guida dettate proprio dal trattato siglato a Maastricht cinque anni prima.
Ma perché proprio il 3%?
Ufficialmente la regola del deficit al 3% del Pil deriva, a sua volta, dal parametro scelto per il debito pubblico. Il tetto
del 60% del Pil nasce da una valutazione abbastanza semplice: visto che nel 1992 la media del rapporto debito pubblico/Pil
si aggirava effettivamente intorno al 60%, la percentuale venne eletta a quota di riferimento accettabile di debito. In
fondo l’obiettivo di Maastricht era di creare un meccanismo di convergenza macroeconomica, ovvero un livello di crescita omogeneo
fra i vari paesi che sarebbero confluiti nella moneta unica. I relatori, però, si sono posti il problema di individuare un
tasso di crescita massimo del deficit che mantenesse il debito sotto l’asticella del 60% del Pil. Il risultato è frutto di
una equazione di matematica finanziaria. Mettendo in relazione il rapporto debito/Pil (60%) e il tasso di crescita nominale
stimato in quel periodo (5%), emerge che per mantenere il debito sotto una quota del 60% bisogna conservare il deficit annuale
sotto il 3% del Pil.
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Esiste, però, anche una versione diversa dei fatti: il vincolo del deficit sarebbe frutto di una decisione del tutto arbitraria, dettata da esigenze politiche della sola Francia. La tesi ha preso corpo dopo un’intervista rilasciata nel 2012 al quotidiano Le Parisien da Guy Abeille, economista del ministero delle Finanze francesi ai tempi della presidenza François Mitterrand. Abeille, interpellato anche dal Sole 24 Ore, sostiene di essersi «inventato» la formula del 3% su pressione dello stesso Mitterrand, alla ricerca di un paletto legislativo per frenare l’aumento di deficit che si sarebbe innescato con le sue dispensiose promesse elettorali. Il vincolo, ideato per la Francia, sarebbe poi stato esteso a tutti gli altri paesi dell’allora Comunità europea.
Perché quasi tutti lo vogliono ridiscutere
L’impianto di regole sancito da Maastricht è accusato di un eccesso di rigidità, anche rispetto ai traguardi originari di
«convergenza» fissati nel 1992. Secondo la tesi dei più critici, non solo in Italia, i vincoli fiscali andrebbero riadattati
per consentire di gestire meglio situazioni di crisi di particolari paesi o settori economici. Anche in patria, Salvini
non è l’unico ad aver fatto trasparire l’intenzione di superare o accostarsi al parametro del 3% sul deficit. Il vicepremier
Luigi Di Maio, ora in rotta di collisione con il collega per le sue «sparate», aveva dichiarato nel 2017 che il parametro del 3% «non è un dogma» e «superandolo potremmo ridurre il debito pubblico». Il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ha sostenuto in un’intervista
a Radio24 che«superare il 3 per cento non è nulla di scandaloso» e che il parametro in sé «è probabilmente una cosa sbagliata», anche se nel suo caso avrebbe preferito «mantenere gli impegni,
sempre che sia possibile». Anche l’ex premier e leader del Partito democratico, Matteo Renzi, aveva aperto di fatto alla possibilità
di superare il vincolo del 3 per cento nel 2014, prima di lanciare nel 2017 la proposta di un accordo con Bruxelles per tenere
l’asticella al 2,9% lungo un periodo di cinque anni.
Nei programmi dei partiti per le Europee 2019 non si parla esplicitamente di violare i parametri di Maastricht, ricorrendo
a una più generica avversione alla «austerity» imposta da Bruxelles. Un obiettivo che crea, di nuovo, un inedito asse fra
partiti di estrazione diversa come Cinque stelle, Fratelli d’Italia , Forza Italia e Pd. I Cinque Stelle invocano uno stop
all’austerità, tradotto in un unico obiettivo sostanziale: scomputare dai vincoli di bilancio gli «investimenti pubblici produttivi
e d'impatto sociale». Fratelli d’Italia si lancia contro la «asfissiante austerità» e l’Europa «diventata il parco giochi
di Francia e Germania», salvo formulare la stessa proposta dei pentastellati : togliere le spese per gli investimenti dal
computo dei parametri europei. Forza Italia, in controtendenza rispetto alla linea del Partito popolare europeo, chiede «maggiore
flessibilità fiscale contro la politica dell’austerità». Di fatto un obiettivo simile a quello del Partito democratico («scorporo
dal calcolo del deficit degli investimenti»), che lo include però in un «piano straordinario di investimenti in capitale
umano, ricerca, infrastrutture materiali, immateriali e sociali, energie rinnovabili».
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