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Questo articolo è stato pubblicato il 12 maggio 2010 alle ore 08:48.
L'ultima modifica è del 13 maggio 2010 alle ore 12:44.
"Tecnofobia", eccola qui la parola che non si vorrebbe mai dover pronunciare in un dibattito sul futuro industriale del paese. Eppure, tra i firmatari dell'appello sul nucleare rivolto al leader Pd Pierluigi Bersani, c'è chi la evoca senza troppe remore: per Gilberto Corbellini, docente di Storia della medicina all'Università di Roma, «è un rischio reale che può tornare a insinuarsi nel pensiero di area democratica. Sul nucleare come sugli Ogm e finanche la bioetica». Pregiudiziali ideologiche che sovrastano i contenuti, scarsa considerazione delle analisi e dei giudizi dei tecnici su reali rischi e benefici, perfino «pressapochismo»: queste, in estrema sintesi, le critiche rivolte alla parte maggioritaria del Pd nella lettera rivolta a Bersani pubblicata ieri integralmente sul Riformista e con ampi stralci sul Corriere della sera.
Settantadue firme tra intellettuali, scienziati, manager, economisti: da Umberto Veronesi a Giorgio Salvini, da Margherita Hack a Edoardo Boncinelli a Franco Debenedetti e Massimo Locicero, con una rappresentanza di parlamentari dello stesso Pd composta da Enrico Morando, Tiziano Treu, Pietro Ichino, Andrea Margheri, Erminio Quartiani, Francesco Tempestini. Insieme per lanciare un messaggio molto chiaro: il nucleare non è né di destra né di sinistra e il confronto sul tema, superato un certo «spirito antiscientifico, elitario e snobistico», dovrebbe limitarsi ai contenuti certi senza difese di retroguardia. Una critica che non piace a Bersani, pronto ieri a rintuzzare le accuse rilanciando su quello che, nel piano del governo per tornare al nucleare, proprio non va. «Il nostro – dice – non è un no ideologico, semplicemente quel piano è velleitario». E giù a snocciolare tutti i punti su cui finora si è solo girato intorno al problema: sicurezza, certo, ma anche «condizioni tecnologiche, mancanza di un'Agenzia, gestione del vecchio nucleare, localizzazione degli impianti, costi». Va anche oltre Ermete Realacci, responsabile "green economy" del Pd, ribaltando la prospettiva: «Quell'appello è figlio di ideologie del passato», vetero progressismo sganciato dai problemi da affrontare.