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Questo articolo è stato pubblicato il 18 maggio 2010 alle ore 08:04.
Hanno alzato le braccia al cielo e si sono abbracciati come se avessero segnato un goal ma forse l'entusiasmo di Ahmadinejad, Lula da Silva ed Erdogan, insieme a quello dei loro ministri degli Esteri, è destinato a raffreddarsi: l'intesa per lo scambio di uranio arricchito iraniano in Turchia più che risolvere la questione sembra complicarla. L'accordo riecheggia quello respinto dall'Iran nell'ottobre scorso a Ginevra ma non è la stessa cosa.
Da allora la repubblica islamica, sospettata di volersi procurare l'atomica, ha aumentato gli stock di uranio e oggi, secondo i metodi da bazar in cui gli iraniani sono maestri, offre forse la metà di quello che ha accumulato in questi mesi.
Ma non si tratta soltanto di questo: lo scambio è soltanto una delle misure richieste dagli Stati Uniti e dal consiglio di sicurezza. Il nocciolo della questione è il proseguimento da parte iraniana delle attività di arricchimento a Natanz, il reattore da acqua pesante di Arak, il fatto che sia stato nascosto a lungo il sito nucleare di Qom, le richieste dell'Aiea rimaste senza risposte concrete. Sono le violazioni costanti alle risoluzioni dell'Onu e delle regole stabilite dall'Agenzia atomica che proiettano una giustificata diffidenza nei confronti dell'intesa firmata con gran clamore a Teheran.
Gli iraniani però hanno una gran fretta di "rinviare la palla nel campo dell'Occidente", come hanno dichiarato ieri, per allontanare la discussione di un nuovo round di sanzioni in coincidenza con l'anniversario delle elezioni presidenziali del 12 giugno scorso che scatenarono la rivolta popolare e una furibonda repressione del regime. Per di più in una situazione economica che si fa confusa: secondo il governatore della Banca centrale, Mahamoud Bahmani, nelle casse di due tra i maggiori istituti di credito (Saderat e Melli) mancano all'appello 47 miliardi di dollari di prestiti concessi nell'ultimo anno ai Pasdaran (e al governo Ahmadinejad) e mai rientrati.
Ma che cosa spinge Turchia e Brasile a mettere in gioco la loro immagine con un paese che più di una volta ha dimostrato di eludere gli impegni internazionali? Per l'ambizioso presidente Lula, ormai vicino alla scadenza del mandato e che non potrà ripresentarsi candidato, l'accordo di Teheran appare come una sorta di appuntamento con la storia, un'occasione per rafforzare il suo profilo di leader, magari per giocarsi domani qualche buona carta per un incarico internzionale di prestigio. Ci sono anche degli obiettivi nazionali: il Brasile si propone, con la sua economia in espansione, come la potenza guida dell'America Latina e punta ad avere un seggio permanente al consiglio di sicurezza. Lula nel novembre scorso aveva accolto prima il presidente israeliano Shimon Peres e poi Ahmadinejad, appoggiando il programma nucleare iraniano. «Con l'Iran bisogna parlare - ha detto Lula - nessuno lo fa e allora sono io che vado a Teheran: le critiche di oggi all'Iran mi ricordano le false giustificazioni di Washington sulle armi chimiche per fare la guerra all'Iraq». Ma queste incursioni mediorientali di Lula hanno cominciato a sollevare qualche perplessità in Brasile e sono viste con scetticismo anche dalla Russia e dalla Cina, la prima maggiore fornitore di armi degli ayatollah, la seconda grande acquirente del petrolio di Teheran, le due superpotenze che gli americani stanno cercando di guadagnare con fatica alla causa di nuove sanzioni anti-Iran.