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Serve ricerca al motore delle Pmi

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Questo articolo è stato pubblicato il 23 maggio 2010 alle ore 08:07.

«Il made in Italy riaccende i motori», titolava Il Sole 24 Ore di domenica scorsa, commentando i dati sulla ripresa del'export verso la Ue (+10.8%) e i paesi Ue (+6.8% nel 1° trimestre rispetto all'anno prima). Gli ultimi dati sul commercio extra-Ue nel primo quadrimestre confermano una buona accelerazione delle espotazioni verso queste aree, che pesano ormai più del 40% dei nostri mercati di sbocco, anche se appare in lieve flessione il saldo attivo manifatturiero e aumentato il disavanzo della bilancia commerciale a causa dei rincari delle fonti d'energia importate.

Ciò non basta a dissipare le ansie del sistema produttivo sulle prospettive di tenuta di questa ripresa, scontato il rimbalzo dopo la profonda caduta del 2009, che - non dimentichiamo - ha visto le nostre esportazioni complessive cadere del 20,7% in media annua rispetto al 2008. Come hanno dimostrato molte indagini basate su campioni di imprese (per esempio Invind della Banca d'Italia) e su dati disaggregati per distretti, settori e gruppi di prodotti (per esempio Fondazione Masi, Fondazione Edison, Prometeia, Intesa Sanpaolo), nel mondo delle micro-piccole-medie aziende manifatturiere (la "pancia del paese") coesistono esperienze molto diverse.

Accanto a imprese prossime ad abbandonare la partita perché non reggono la concorrenza sui costi e la dura selezione del credito, vi sono quelle che per ora resistono confidando in qualche aiuto dall'esterno (Tremonti ter, Fondo di garanzia, moratoria sul debito bancario) ma anche molte espressioni del "quarto capitalismo" che danno fondo alle proprie risorse, guardano avanti oltre la presente fase di crisi e investono in maggiore efficienza, miglioramento dei prodotti, allargamento e penetrazione dei mercati.

I dati Ocse-Stan mostrano che nel 2000-2008 la quota italiana sul valore delle esportazioni mondiali è rimasta assolutamente marginale nei settori dell'alta tecnologia, ha perso quasi un punto nei settori tradizionali di consumo (a bassa e medio-bassa tecnologia) ma si è mantenuta robustamente sopra la media in quelli di medio-alta tecnologia.

Nella fascia di medio-alta operano centinaia di fornitori specializzati in settori come chimica-farmaceutica, meccanica elettrica e strumentale, componenti di veicoli e aerei, elettronica professionale.

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Tags Correlati: Banca d'Italia | Dani Rodrik | Emma Marcegaglia | Fabio Beltrami | Fondazione Edison | Fondazione Masi | Francia | Germania | Gewiss | Intesa Sanpaolo | Ocse | Pmi | Prometeia

 

Analisi del Cepii francese mostrano che la relativa pericolosa somiglianza statistica fra Italia e Cina quanto a paniere delle esportazioni tende a scomparire quando il confronto scende alle 9mila voci disaggregate all'interno dei tradizionali settori merceologici.

L'Osservatorio Anie-Intesa SanPaolo segnala che 4mila Pmi piccole-verdi-hightech con 65mila addetti (16 addetti in media per impresa!) continuano a rosicchiare quote export ai concorrenti tedeschi e di altri paesi forti. Alcune medie imprese investono decisamente su nuove tecnologie con mercato in forte crescita, come Gewiss nella domotica, Carraro nel fotovoltaico, Comoli-Ferrari nei nuovi materiali elettronici. Come documenta l'Osservatorio Rita del Politecnico di Milano, continua a espandersi la schiera delle "startup" orientate alla concorrenza tecnologica.

Una recente ricerca sulle Pmi statunitensi (Nber n.15957) trova che nel 1997-2007 i piccoli fornitori specializzati su commessa (custom oriented) hanno realizzato performance nettamente migliori delle grandi imprese, il cui mercato di prodotti standardizzati è maggiormente eroso dall'impetuosa avanzata dei concorrenti emergenti a basso costo.

Ma perché l'accensione dei motori consenta una ripresa duratura e in velocità non bastano incentivi a pioggia (molti dei quali si rivelano inefficaci ex post), né moratorie creditizie, né un euro temporaneamente indebolito sul dollaro. Per far ripartire la produttività del paese, da troppo tempo a profilo piatto, bisogna imprimere una spinta alla ricerca e allo sviluppo di nuovi prodotti e nuovi processi, sia dentro che fuori dai perimetri dei settori in cui sono maturati i vantaggi competitivi del passato.

Servono grandi progetti trasversali (non certo i vecchi "piani di settore") in cui la mano pubblica si fa partner paritario con i soggetti privati, identificando insieme (bottom up) gli spazi per coltivare nuovi vantaggi competitivi adatti a sfruttare le nostre risorse umane culturali e tecniche migliori: magari anche di alcuni dei numerosi ingegneri e tecnici italiani che (guarda caso) sono contesi come manager di imprese nella Silicon Valley, per non parlare della manodopera altamente qualificata che le imprese a capitale estero continuano ad apprezzare come uno dei (pochi) elementi di attrattività del nostro paese. Servirebbe un rilancio d'Industria 2015, peraltro citato anche da Emma Marcegaglia a conclusione del Convegno Confindustria di Parma dello scorso aprile.

Rapportato al Pil, l'investimento dell'Italia in R%S è meno della metà di quello di Francia e Germania, ma la quota di R&S delle imprese finanziata dal settore pubblico supera del 20% quella media Ocse ed è il doppio di quella tedesca. Uno studio recente della Commissione europea, di cui riferiva Fabio Beltrami sul Sole 24 Ore del 14 maggio, trova che nel settore delle nanotecnologie il numero di entità di ricerca in Italia è simile a quello di Francia e Germania, ma il numero delle imprese produttive è assai inferiore. Dispersione di risorse e mancanza di regia su pochi grandi progetti (a proposito, quale impatto industriale ha finora avuto l'Istituto italiano di tecnologia?) continuano ad essere una palla al piede per un percorso virtuoso del paese nello spirito della Strategia di Lisbona.

Come argomentava Dani Rodrik (Il Sole 24Ore del 20 aprile), «La politica industriale è tornata. Il vero problema non è se praticarla o non praticarla, ma come praticarla. Uuna politica industriale efficace non dipende dall'abilità di scegliere chi vince, ma dalla capacità di lasciare chi perde al proprio destino. Un governo che non fa errori nel promuovere l'industria è un governo che fa l'errore più grande: quello di non provarci abbastanza».

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