Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 24 maggio 2010 alle ore 10:02.
Squadra che vince non si tocca. Figurarsi se, oltre al resto, torna a vincere la coppa dei Campioni dopo 45 anni. Era una filastrocca, un assioma, un dogma. Il punto di ripartenza per una nuova avventura, il presupposto per la difesa di un titolo, in questo caso di più titoli. Ma da quando il calcio è diventato innanzitutto business, i titoli son diventati "tituli", e la clausola contrattuale più importante, quella su cui non transigere, è diventata quella rescissoria, lunga o breve che sia la durata del contratto in essere, la certezza è diventata una sola. L'aleatorietà.
L'Inter lo aveva già sperimentato giusto un anno fa, con Ibrahimovic. Le prime voci, le prime smentite, le prime conferme: un percorso del tutto simile a quello ripetutosi nelle ultime settimane con il tecnico José Mourinho. Ha poi scoperto nel tempo, l'Inter, come non tutti i mali vengano per nuocere. Non solo perché il Barcellona pagò uno sproposito il cartellino dello svedese, e finì per finanziare interamente la miglior campagna acquisti nerazzurra dei tempi recenti e forse della storia (Milito, Eto'o, Lucio, Thiago Motta). Ma perché la presenza di Ibrahimovic alla guida dell'attacco del Barca ha finito coll'indebolire la rivale più accreditata nella corsa alla finale, come ben si è potuto constatare nella doppia sfida di semifinale.
Se un errore fatale l'allenatore del Barcellona Guardiola ha commesso in quell'autentica finale anticipata, è stato puntare su Ibra nella sfida milanese di andata. Se di uno ancor più grave si è macchiato, è stato insistere ad ogni costo sullo svedese anche nel ritorno. E si è visto una volta di più nella trionfale serata del Bernabeu di che pasta sia fatto l'uomo che ha preso il posto di Ibra. Diciamo la verità, stava arrancando l'Inter di fronte al valzer lento dei tedeschi. Ma è bastato un lampo del "principe" per scacciare i cattivi pensieri e mettere le mani sulla più bella delle coppe.
Stavolta però è diverso. Perché a parità di libero arbitrio da parte del tesserato, e di disappunto della società che aveva volutamente prolungato il vincolo contrattuale proprio a scanso di brutte sorprese, ad andarsene non è un giocatore, per immanente che fosse. È il tecnico. È l'artefice del salto di qualità in campo continentale, obbiettivo primo della società sin dal momento in cui, nella tarda primavera di due anni fa, lo aveva ingaggiato.