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Questo articolo è stato pubblicato il 25 maggio 2010 alle ore 10:48.
L'ultima modifica è del 25 maggio 2010 alle ore 08:04.
L'equilibrio futuro dell'area dell'euro dipenderà in buona misura dal commercio estero. Solo la capacità diffusa di produrre ed esportare beni e servizi può determinare la coesione di lungo periodo dei paesi membri. Per questo motivo il patto di stabilità non può limitarsi a rimettere i conti in ordine, a estendere la Schuldenbremse tedesca, il vincolo costituzionale ai deficit pubblici, ma deve aprire a riforme strutturali che rafforzino la competitività complessiva dell'Unione e il rilancio della crescita della regione.
Parlare di mercato del lavoro, liberalizzazioni delle professioni, investimenti in capitale umano, riforma della burocrazia e supporto alle imprese mentre Atene brucia e l'euro scivola potrebbe apparire paradossale, ma così non è.
La radice del progetto dell'euro non è solo monetaria ma affonda nell'economia reale, è complementare al mercato unico: ridurre le barriere agli scambi nell'area. E la crisi dell'euro deriva da una diversa capacità competitiva dei paesi membri, non solo da una gestione malaccorta dei conti pubblici. Grecia e a seguire Portogallo e Spagna hanno deficit molto elevati dei conti con l'estero. L'aggiustamento di questi squilibri non si risolve solo rilanciando la domanda tedesca (cosa che comunque Berlino ha poca intenzione di fare), ma rafforzando la competitività dei paesi in deficit. Le misure fiscali varate fin qui lo fanno indirettamente attraverso la deflazione. Peccato che l'Europa abbia assolutamente bisogno di crescere. Le riforme strutturali per il rafforzamento della competitività sono dunque una via alternativa (o in alcuni casi complementare) alla mortificante compressione di prezzi e salari.
Ci sono almeno due buone ragioni per consolidare la dimensione europea di queste politiche. La prima è evitare di pestarsi i piedi. All'interno dell'area dell'euro, principale mercato di destinazione di tutti i paesi membri, se tutti non crescono più rapidamente, le esportazioni dell'uno vanno a scapito di quelle degli altri. La crescita delle esportazioni delle nazioni in deficit si tradurrebbe in un gioco a somma zero, spinto da politiche nazionali di tipo beggar-my-neighbour, ossia dannose per gli altri paesi.