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Nel Pd spunta l'ala favorevole al dialogo

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Questo articolo è stato pubblicato il 26 maggio 2010 alle ore 08:01.

Lina Palmerini
ROMA
Senza un voto di fiducia è possibile che dal Pd possano arrivare dei «sì». L'apertura è di Enrico Letta che lo dice chiaro andando contromano rispetto al coro di «no» che si sentiva nel partito. «Chiediamo al governo di non porre la fiducia e di metterci in condizione di discutere le misure. Finora le anticipazioni non ci convincono ma se resteranno le norme anti-evasione il nostro "sì" sarà obbligato. Così come saremo contrari a condoni mascherati e all'assenza di riforme per lo sviluppo». Insomma, il vicesegretario si dice pronto ad accogliere il richiamo del Colle e ad avvicinarsi a Giulio Tremonti «senza pregiudizi» modulando tra sì e no il giudizio del Pd. E se nel partito ora l'indice è puntato contro i dialoganti accusati di soffrire della «sindrome di Stoccolma» verso il ministro dell'Economia, si comincia a vedere come su alcune misure sarà difficile tenere la porta chiusa.
Sulla lotta all'evasione, o sul taglio dei rimborsi ai partiti o anche sull'abolizione di una decina di province, come farà il Pd a dire «no»? I democratici vorranno farsi etichettare come statalisti o privilegiati della casta? E sarà complicato pure dire no ad alcune misure pro-imprese. In questo dilemma si troveranno se non ci sarà la fiducia ma ieri poteva ancora essere il giorno della bocciatura come quella che ha dettato Pierluigi Bersani a sei ore di fuso orario da Roma. Il segretario è in Cina – insieme al responsabile economico – mentre il governo varava la manovra e alcuni compagni di partito non hanno gradito lo scarso tempismo del viaggio. «È un gioco di specchi, è depressiva», dettava da Pechino il segretario mentre il suo vice incontrava le parti e sceglieva una via più cauta.
A tirare il Pd verso la battaglia sono gli enti locali e la Cgil mentre Cisl, Uil e imprese aprono uno spiraglio a Tremonti che condiziona – e condizionerà – la parte più moderata del Pd. Il primo a suggerire di non chiudere era stato Nicola Rossi che ieri confermava: «Ha ragione Tremonti: non è la solita manovra a uso domestico ma è un segnale all'Europa in un momento in cui si tenta un'integrazione più forte. E poi se il messaggio di fondo è che lo stato deve costare meno – e lo verificheremo – a maggior ragione il Pd deve dire "sì" perché non esiste sviluppo senza la premessa di una riduzione della spesa».

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Tags Correlati: Beppe Fioroni | CGIL | Cina | Cisl | Enrico Letta | Giorgio Tonini | Giulio Tremonti | Michele Ventura | Paolo Gentiloni | Pd | Pierluigi Bersani | Politica | Uil

 

In questo scenario, ancora confuso, i parlamentari del Pd cercavano manovre alternative. Michele Ventura, vicino Bersani, suggeriva il «ripristino dell'Ici eliminato da Berlusconi» e Beppe Fioroni chiedeva una tassa del 10% su chi ha beneficiato dello scudo fiscale. Insomma, varie contromanovre «per non averne voluta una», accusava Paolo Gentiloni. «L'hanno snobbata dicendo che Berlusconi doveva metterci la faccia: ma la faccia ce l'ha messa Tremonti e si guadagna il ruolo di statista. E noi? Siamo costretti a un referendum su di lui perché non abbiamo una nostra base negoziale», infieriva Giorgio Tonini.
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