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Una clausola anti-suicidi nei contratti Foxconn

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Questo articolo è stato pubblicato il 27 maggio 2010 alle ore 08:04.

SHANGHAI- Impegnarsi per iscritto a non suicidarsi. Una richiesta folle per tentare di bloccare gesti folli. A formularla è stato Terry Gou, il presidente di Foxconn, l'azienda cinese di componentistica che lavora per conto dei colossi dell'elettronica mondiale dentro le cui mura dall'inizio dell'anno si sono suicidati dieci dipendenti.


«Siamo profondamente dispiaciuti di quanto è accaduto - ha detto ieri Gou, parlando a un gruppo di giornalisti invitati in via del tutto eccezionale dai vertici di Foxconn a visitare la gigantesca fabbrica di Longhua - Per evitare che si verifichino altri casi drammatici, d'ora in poi i lavoratori di Foxconn dovranno promettere formalmente di non farsi del male e di recarsi subito da uno psichiatra nel caso soffrissero di problemi mentali». Insomma, il divieto di suicidarsi diventa un elemento chiave del contratto di lavoro siglato dai 300mila dipendenti, oltre al fatto che le famiglie degli operai che si dovessero togliere la vita non avranno diritto a risarcimenti.


Al padre-padrone di Foxconn va comunque dato atto di essersi fatto carico personalmente del drammatico fenomeno che ha sconvolto la vita della città-fabbrica di Longhua. Ieri, per la prima volta nell'esistenza del gruppo in Cina, l'imprenditore taiwanese ha vinto la sua allergia per i media e ha aperto le porte dell'azienda a un gruppo di giornalisti cinesi e stranieri. I cronisti hanno così potuto vedere con i loro occhi come e dove vive l'esercito di operai (perlopiù giovani emigrati dalle campagne) che ogni giorno assembla componenti per i prodotti di consumo targati Sony, Samsung, Dell, Nokia, Apple, che finiscono sui mercati mondiali.
Una zelante guida ha mostrato alla stampa i dormitori dove alloggiano tra 4 e 8 operai per stanza, il supermercato, la panetteria, le palestre, la piscina olimpionica e tutti gli altri spazi di conforto allestiti da Foxconn per rendere più piacevole la vita dei propri dipendenti. «La nostra priorità ora è interrompere la catena di suicidi», ha detto la guida, confermando le misure prese dall'azienda per fronteggiare l'emergenza: l'assunzione di un centinaio di monaci buddisti per aiutare spiritualmente i dipendenti in crisi esistenziale, e la costituzione di un servizio interno di assistenza psichiatrica in funzione 24 ore su 24.

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Tags Correlati: Apple | Cina | Dell | Deng Xiaoping | Foxconn | Hewlett Packard | Longhua | Samsung Informatica | Sony | Telecomunicazioni | Terry Gou

 


Per arrestare la spirale di morte tutto serve. Compresi i gesti di buona volontà da parte di un management che, all'improvviso, si è ritrovato sotto i riflettori della cronaca per una brutta storia. Una brutta storia che non sta certo facendo una buona pubblicità anche ai grandi committenti internazionali di Foxconn, sempre più preoccupati per il danno d'immagine derivante dalla catena di suicidi nella città-fabbrica (ieri Apple e Hewlett Packard hanno annunciato l'avvio di inchieste indipendenti sulle condizioni di lavoro nell'azienda cinese).
La radice del problema, però, rischia di non essere dentro quella fabbrica che, nonostante le facili speculazioni di questi giorni, offre alle sue maestranze condizioni di lavoro di gran lunga migliori rispetto alla media dell'industria manifatturiera cinese. La radice del problema (e lo dimostra il fatto che l'ultimo suicida lavorava in Foxconn solo da un mese) è nel travaglio di quei giovani che, di punto in bianco, vengono sbattuti a lavorare a migliaia di chilometri di distanza, lontani dalla loro terra e dai loro affetti.


E' vero: non è un fenomeno nuovo, perché negli ultimi trent'anni, cioè da quando Deng Xiaoping costituì le prime Zone Economiche Speciali ponendo così le premesse della rivoluzione industriale cinese, milioni di persone hanno condiviso lo stesso destino dei lavoratori di Foxconn. Senza suicidarsi in massa. Ma quella era un'altra Cina. Una Cina umile, fondata sui valori rurali, votata al sacrificio, e totalmente imperniata sulla dignità del lavoro. Nell'arco di una sola generazione, il paese è profondamente cambiato. E per quei giovani emigrati, confusi e frastornati da modelli culturali radicalmente diversi da quelli dei loro genitori, oggi un posto di lavoro fisso e sicuro può anche trasformarsi in una dannazione insopportabile.
L.Vin.

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