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Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2010 alle ore 19:14.
Due grossi impianti della giapponese Honda, nella provincia cinese del Guandong, sono chiusi a causa di uno sciopero degli operai, che chiedono migliori condizioni di lavoro e un aumento di stipendio. Dopo anni a lavorare 12 ore al giorno per sei giorni a settimana hanno deciso di incrociare le braccia.
I giornali e le tv locali ne hanno parlato per due giorni, anche facendo leva sul sentimento anti-giapponese che, dalla seconda guerra mondiale, non è mai del tutto scomparso. Poi, improvvisamente è arrivato il contrordine delle autorità: dello sciopero non si parla. Perché? Perché il governo vuole imporre il silenzio su una mobilitazione che riguarda appena 1900 operai? Il motivo è presto detto: bisogna evitare fenomeni di emulazione in altre parti del paese. A quanto si sa, neppure la polizia è intervenuta. Lo scopo è evidente: evitare il clamore. Evitare di accendere una miccia che possa far esplodere le contraddizioni di un paese la cui economia cresce a ritmi ultra sostenuti, senza che il reddito di garn parte dei suoi abitanti faccia lo stesso.
La maggior parte degli scioperanti della fabbrica della Honda sono ventenni. Rappresentano la nuova generazione di lavoratori appena usciti dalle scuole superiori. Gente che non era neanche nata quando l'esercito della Repubblica popolare reprimeva nel sangue gli scontri di Piazza Tienanmen nel 1989. Allora si chiedeva più democrazia. Nella Cina turboindustriale di oggi la richiesta, sopita dal silenzio dei media, è maggiori salari e migliori condizioni di lavoro.
Nella Cina comunista la grande contraddizione è la sperequazione economica: pochi super ricchi nelle grandi metropoli, tanti poveri nelle periferie e nelle campagne. Questa condizione poi diventa sempre più gravosa se si considera la crescita galoppante dell'inflazione (gli ultimi dati parlano di prezzi al consumo e prezzi alla produzione in rialzo rispettivamente del 2,8 e del 6,8% rispetto all'anno scorso).
Tutto questo rende così importante la questione dei salari di 1.900 dipendenti degli impianti Honda. Il suo possibile effetto a catena nel resto del paese è visto con preoccupazione da Pechino. Perché rischia di mettere in crisi un modello rodato basato su prezzi ultracompetitivi grazie al bassissimo costo del lavoro. Vista dalla prospettiva delle economie occidentali invece, una sollevazione degli operai cinesi per chiedere migliori salari potrebbe essere la chiave di volta tanto attesa. Potrebbe portare a una riduzione del dumping, le esportazioni a prezzi imbattibili, che ha messo in ginocchio tanta impresa manifatturiera italiana ed europea per aprire finalmente l'immenso mercato cinese alle merci occidentali. In poche parole creare le premesse per una ripresa più equilibrata dell'economia mondiale, che la crisi dei debiti sovrani in Europa ha contribuito ad azzoppare.
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