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Ora Detroit è salita tutta sull'auto di Marchionne

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Questo articolo è stato pubblicato il 04 giugno 2010 alle ore 08:04.

«Ho lasciato il lavoro da maestro e ho preso questo taxi. Ho sempre avuto il mito di mio nonno Luis, che faceva l'autista per i dirigenti della General Motors. Ora guadagno di più. E, soprattutto, è meno pericoloso che insegnare a leggere e a scrivere ai ragazzini dell'East Side». Kenneth Reynolds ha la maglietta di Obama, saluta i clienti con il pugno della cultura popolare nera e ha riposto nel cassetto la laurea in pedagogia della Michigan State University.

Nelle sue parole affiora tutta Detroit: il sogno dell'auto e la sua decadenza, la crisi d'identità e il calore violento di una città dove dieci giorni fa una bambina di sette anni di nome Aiyana Stanley Jones è stata uccisa per errore da un poliziotto. Un posto che sembra partorito dalla fantasia malata di un nuovo De Chirico: in downtown non vedi nessuno per vie intere, c'è il vuoto, sono tutti scappati verso i sobborghi residenziali, mentre nella periferia le case diroccate e gli stabilimenti industriali abbandonati hanno le fattezze, nel cuore dell'America, di uno strano animale urbano nato dall'incrocio fra la Manchester triste degli anni Sessanta e la nostra Gela disperata di oggi.

Due milioni di abitanti nel 1950 ora ridotti a meno di 800mila, l'80% neri, uno su tre senza il diploma di scuola superiore. Ogni famiglia ha in media un reddito di 28mila dollari (nell'intero Michigan è di 48mila dollari). Una su tre vive sotto la soglia della povertà, con meno di 22.050 dollari all'anno. Chissà perché, perfino gli incidenti in macchina qui finiscono peggio: ogni mille a Detroit dieci sono mortali, nel resto del Michigan si fermano a sette.

In questo scenario sociale devastato risaltano bene i contorni netti della crisi dell'auto, che è anche la crisi profonda di tutto il manifatturiero statunitense. «L'auto americana - spiega Michael Belzer, docente di relazioni industriali alla Wayne State University - è stata condizionata dall'approccio ultraliberista». L'ideologia del free trade ha messo fuori gioco un pezzo di tessuto produttivo e i salari contrattati dai sindacati (prima della crisi 29,75 dollari all'ora, il 40% in più rispetto alla media manifatturiera americana) hanno reso troppo care le macchine fabbricate in questa parte d'America.

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Tags Correlati: Charles Erwin Wilson | Chrysler | Dati di bilancio | De Chirico | Ford | Frank Lloyd Wright | Hyundai | Isuzu | Italia | Kenneth Reynolds | Michael Belzer | Nissan | Rick Wagoner | Sergio Marchionne | Stati Uniti d'America | Volkswagen | Wayne State University

 

Il cardine del vecchio sistema, composto da General Motors, Ford e Chrysler, sta cercando di trovare a Detroit un nuovo equilibrio. Delle Big Three, Detroit non può fare a meno: General Motors, su 204mila addetti, ne ha 80mila qui, Ford su 176mila circa 70mila e Chrysler su 49mila circa 19mila. Ognuna di esse, nel reticolo del potere e della vita quotidiana, dell'immaginazione e delle reciproche aree di influenza, ha una posizione specifica.

Per General Motors vale il detto di Charles Erwin Wilson, presidente durante e dopo la Seconda guerra mondiale: «quello che è buono per Gm, è buono per il paese», tradotto nella provincia italiana con riferimento alla Fiat da Gianni Agnelli. Ford ha dato il nome alla cultura industriale di un secolo intero. Chrysler è sempre stata la più piccola e la più marginale. Anche adesso, qui tutti guardano con molta attenzione a Gm, che ha annunciato per il primo trimestre un utile netto di 900 milioni di dollari e ricavi pari a 31,5 miliardi (+40%), e a Ford, l'unica che non ha fatto ricorso a soldi pubblici e che è riuscita a ottenere nello stesso periodo un profitto netto di 2,1 miliardi e un fatturato di 28,1 miliardi (+15%).

Chrysler è più nell'ombra, benché inizi a diminuire la diffidenza verso la Fiat e Sergio Marchionne. Per ora gli elementi a favore del manager italo-canadese sono tre: i risultati del primo trimestre (perdite nette a 197 milioni, utile operativo di 143 milioni e ricavi in salita a 9,6 miliardi, flusso di cassa positivo per 1,4 miliardi), la mole d'informazione che ha fornito agli analisti (ottenendo una apertura di credito da molti di loro, ma assumendosi un rischio verso la concorrenza) e quel misto di terrore ed esaltazione che produce il suo stile manageriale, che colpisce a freddo in qualunque momento i burocrati e gli incompetenti promuovendo le forze più arrembanti e fresche del management.

«Al di là di questi elementi positivi - osserva Richard Block, ex direttore della Scuola di relazioni industriali della Michigan State University - la condizione di Chrysler resta critica. La Fiat l'ha pagata zero perché non aveva entrate e nessun nuovo prodotto. Quello era il punto di partenza». La nuova Chrysler, nata il 10 giugno dell'anno scorso, ha un debito verso il Tesoro americano di 7,1 miliardi di dollari che, secondo Marchionne, verrà rimborsato entro il 2014. Dunque, fra scetticismo e speranza Marchionne opera su più tavoli. Uno dei quali è quello del sindacato, che asseconda i suoi programmi. «L'implementazione del World Class Manufacturing - conferma Anthony Fioritto, 61 anni - è di continuo sollecitata dai rappresentanti sindacali».

A casa Fioritto, nel sobborgo di Sterling Heights, trovi un pezzo di storia del lavoro alla Chrysler: la novantaduenne nonna Ada Maria, emigrata dal Molise e impegnata negli anni 70 a cucire gli interni delle vetture, Anthony che si occupa dell'inventario dei componenti in Europa, il trentunenne Tony II supervisor alla logistica, il ventiseienne Steven alle risorse umane e la più piccola, Lisa, assunta due settimane fa. «Noi ci crediamo - afferma Tony II - anche perché, in un solo anno, abbiamo realizzato una piattaforma comune. C'è poi un costante travaso di tecnologia dall'Italia all'America. Con i tedeschi non era successo». Gli italiani a Auburn Hills non sono più di una decina. Marchionne parla in continuazione di un'azienda americana gestita da americani. Il contrario di quanto facevano gli uomini di Daimler: poca autonomia dalla casa madre, tutti rinserrati nella palazzina uffici e pronti a salire in 250 sull'Airbus aziendale che faceva la spola con Stoccarda il venerdì e il lunedì.

Il problema Chrysler, comunque, s'inserisce nel contesto di una Detroit Area che sta cercando una più generale rimodulazione. «Questa città - spiega Alberto Negro, dal 1973 l'uomo della Fiat a Detroit - ha ancora un futuro, ma nelle funzioni più sofisticate». E, nel salotto della sua casa di Bloonfield Hills progettata da Frank Lloyd Wright, ricorda come Toyota, Nissan, Volkswagen, Isuzu e Hyundai abbiano qui i loro centri di ricerca. In tre ore di colloquio con lui vedi passare una macchina della polizia, un uomo che corre e un coniglio che mangia l'insalata nell'orto davanti. In questa calma, Negro evidenzia come la partita americana di Fiat si giocherà anche sulla capacità di vendere vetture piccole (la Cinquecento) e medie a un popolo abituato a macchine grosse e pesanti.

«Se la rete commerciale e l'assistenza fossero all'altezza, sarei tentato di comperare un'Alfa», dice Charles Maier, uno dei decani di Harvard, fra i principali specialisti dei rapporti fra America e Europa nel secondo 900, simpatico viveur e amante delle auto italiane. Chi non scherza tanto è Marchionne. Su cui, a Detroit, circolano già leggende metropolitane. «Ehi, mi hanno detto che ha buttato fuori uno che non sapeva rispondere a delle domande su un cambio e l'ha sostituito su due piedi con il suo collaboratore che invece era preparato», racconta Kenneth il tassista.

Vero o non vero, è comunque molto nella roccaforte della manifattura anchilosata, burocratica e decadente degli Stati Uniti dove Rick Wagoner, l'intoccabile di General Motors, prima di essere mandato a casa ha accumulato in quattro anni perdite per 82 miliardi di dollari.

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