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La sfida alla profondità dei nuovi pozzi offshore

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Questo articolo è stato pubblicato il 04 giugno 2010 alle ore 08:03.

Circa 80 chilometri dalla costa, 1.500 metri sotto il pelo dell'acqua. I "numeri" di Macondo fanno impressione: appena dieci anni fa l'idea di estrarre petrolio in alto mare, a profondità così elevate, era semplicemente fantascienza. Eppure, di fronte al maggiore disastro ecologico nella storia dell'industria petrolifera, c'è un commento che ricorre con particolare frequenza tra gli esperti: «Bp non era alle prese con un pozzo difficile».

Nel giro di una manciata di anni, il progresso delle tecnologie offshore è stato così grande da consentire la realizzazione di imprese ai limiti dell'impossibile, di fronte alle quali Macondo sembra quasi un esercizio da dilettanti. La stessa Deepwater Horizon, la piattaforma esplosa il 20 aprile, aveva appena battuto il record di trivellazione sottomarina, identificando – sempre per conto di Bp e sempre nel Golfo del Messico – il giacimento Tiber, a 10,6 km dal livello del mare, di cui oltre 9 sotto il fondale.

Di impianti offshore impegnati ad esplorare i fondali a profondità uguali o superiori a quelle di Macondo solo negli Stati Uniti ce n'erano altri 33. Dopo l'incidente di Macondo, la Casa Bianca ha ordinato che si fermassero tutti per sei mesi, in attesa di un giro di vite sulle condizioni di sicurezza. Il numero complessivo delle trivelle nel Golfo del Messico è però molto più alto: secondo le statistiche di Rigzone, in aprile ce n'erano 243, di cui circa la metà in uso (nel mondo erano invece 578). Quanto al numero di pozzi, i fondali davanti a Texas e Louisiana sono letteralmente costellati di buchi: si stima che ce ne siano circa 3.500, scavati con frenesia crescente man mano che la ricerca di greggio sulla terraferma si è fatta più difficile, a causa del declino dei giacimenti più "a portata di mano" e del diffondersi del cosiddetto nazionalismo delle risorse. La tecnologia ha permesso di fare di necessità virtù, con un progresso che negli ultimi anni ha subito un'accelerazione davvero vertiginosa.

Il petrolio venne cercato per la prima volta nell'acqua nel 1938, a una profondità di appena 4 metri, a poche bracciate di nuoto dalla Louisiana. Il primo pozzo davvero "offshore", 17 km al largo dello stesso stato, risale invece al 1947: la piattaforma non era più grande di un campo da tennis (la Deepwater Horizon aveva invece le dimensioni di un paio di campi da calcio) e il greggio veniva trasportato a terra con delle chiatte rilevate dalla Marina militare alla fine della Seconda guerra mondiale.

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Tags Correlati: Ambiente | Bp | Dutch Shell | Golfo del Messico | Macondo | Marina Militare | Perdido | Royal | Saipem | Shell Italia | Stati Uniti d'America

 

Si è dovuto aspettare fino agli anni '80 prima che la Royal Dutch Shell riuscisse a infrangere la soglia dei 1.000 piedi di profondità (304,8 metri) e fino al 2000 per arrivare al chilometro e mezzo di Macondo, con la Hoover Diana realizzata da Saipem per ExxonMobil. Perdido – inaugurata lo scorso 31 marzo dalla Shell e in grado di produrre fino a 100mila barili di greggio e 50mila metri cubi di gas al giorno – affonda le sue trivelle nell'acqua per 3 km, più o meno come cinque Empire State Buildings impilati.

Ma la vera svolta all'offhore non è legata soltanto alla realizzazione di piattaforme sempre più potenti e sofisticate, bensì alle nuove tecnologie di rilevazione dei giacimenti, che permettono di scandagliare gli abissi, ricostruendo immagini a tre o addirittura a quattro dimensioni dei potenziali depositi di idrocarburi. È così che sono state fatte grandi scoperte come quella di Tupi, al largo del Brasile, o Jubilee nelle acque del Ghana. Scoperte che rappresentano il futuro del petrolio.

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