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Questo articolo è stato pubblicato il 09 giugno 2010 alle ore 09:01.
Come Charles Wilson, storico presidente di General Motors negli anni 50, sosteneva che «quello che è bene per Gm è bene per l'America», così la cancelliera Angela Merkel, azionista di maggioranza di un'eurozona sfilacciata, cerca di convincere il mondo che «quello che è bene per la Germania è bene per l'Europa».
Si possono però nutrire seri dubbi sugli effetti che avrà sull'area dell'euro "il bene di Berlino", ovvero il drastico piano di austerità tedesco, una manovra da 80 miliardi di euro in quattro anni per riportare il deficit sotto il 3% del Pil già nel 2013 dall'attuale 5%.
La brusca accelerazione sul sentiero dell'austerity della teutonica capocordata della moneta unica ha l'effetto in realtà di evidenziare la differenza di passo tra i diversi governi, di rendere ancor più faticoso il cammino degli ultimi arrancanti scalatori, Grecia, Spagna e Portogallo. E così il virtuoso rigore tedesco, invece di aiutare l'uscita dalla crisi dando fiato alla domanda interna, aumenta paradossalmente i rischi di spezzare la corda e di creare quell'euro a due velocità, prospettato su queste colonne da Luigi Zingales. Con pesanti incognite sul ristretto manipolo che potrebbe rimanere avvinghiato al nucleo del germanico leader, visto che anche la Francia si sente ora nel mirino della speculazione e il divario tra Btp italiani e bund tedeschi ha raggiunto livelli record.
Non c'è dubbio che vari governi europei, l'italiano incluso, si siano avviati giustamente sulla strada obbligata di un contenimento della spesa pubblica nelle ultime settimane, per risanare le finanze e alleggerire il carico di un debito sempre più penalizzato da mercati resi ipersensibili dalla crisi greca. La Merkel apparentemente si è mossa da bravo capogruppo nella stessa direzione indicata da Bruxelles, sostenendo l'importanza che Berlino dia «il buon esempio».
Non mancheranno perciò i fautori del darwinismo economico che inviteranno a elogiare la linea tedesca e ad imitarla. A prima vista una posizione ineccepibile, tanto più che il Governo tedesco ha accompagnato i tagli alla spesa pubblica con 12 miliardi di investimenti in ricerca a formazione.