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Il Kirghizistan in fiamme chiede l'intervento della Russia ma da Mosca per ora solo aiuti umanitari

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2010 alle ore 15:08.

MOSCA - Rosa Otunbajeva si è arresa. Dopo due giorni di scontri nel sud del Kirghizistan, un bilancio di almeno 75 morti e mille feriti, la presidente ad interim ha ammesso che il governo provvisorio salito al potere il 7 aprile scorso non è in grado di gestire la situazione da solo. Così ha chiesto aiuto: «Abbiamo bisogno di forze armate esterne per calmare la situazione – ha spiegato la signora ai giornalisti – abbiamo lanciato un appello alla Russia e io ho già firmato una lettera in tal senso per il presidente Dmitrij Medvedev».

L'ufficio stampa del governo russo riferisce anche di una telefonata tra la Otunbajeva e Vladimir Putin. Che Mosca abbia orchestrato – come sembra credibile – o meno le dimostrazioni di inizio aprile, la cacciata del presidente Kurmanbek Bakijev e l'avvento di un governo filorusso, ora la possibilità di riprendere in mano il Kirghizistan le viene servita su un piatto d'argento. E tuttavia il Cremlino sceglie la prudenza: il conflitto in corso in Kirghizistan è un fatto interno, ha risposto la portavoce di Medvedev Natalja Timakova, e l'eventuale invio di una missione di peacekeepers verrà discusso soltanto lunedì insieme alle ex repubbliche sovietiche della regione, e in consultazione con l'Onu. Per ora partono solo gli aiuti umanitari.


Nel sud, da due giorni, Osh brucia, le violenze si sono estese alla città di Jalalabad. La regione è la roccaforte del presidente deposto, ora fuggito in Bielorussia, e il governo provvisorio sospetta che l'esplosione delle violenze tra kirghizi e la minoranza uzbeka sia stata pianificata per destabilizzare la Otunbajeva. Qui, a pochi chilometri dal confine con l'Uzbekistan, l'etnia di quel paese è particolarmente numerosa, il 40%, e la convivenza ha conosciuto negli anni momenti drammatici, con centinaia di morti nel 1990. Venerdì, l'arrivo delle truppe e la proclamazione di stato d'emergenza e coprifuoco non sono bastati a soffocare gli scontri, i peggiori da aprile. La battaglia è proseguita nella notte: bande armate di fucili, bombe incendiarie e spranghe hanno saccheggiato i quartieri uzbeki, dato fuoco ad automobili, case, negozi. «Intere vie sono in fiamme – riferisce il portavoce del ministero degli Interni, Rakhmatillo Akhmedov – la situazione è molto grave e non sembra che possa risolversi».

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Tags Correlati: Andrea Berg | Cremlino | Dmitrij Medvedev | Forze Armate | Human Rights Watch | Kurmanbek Bakijev | Ministero dell'Interno | Mosca | Onu | Osh | Politica | Reuters | Rosa Otunbajeva | Ufficio Stampa | Vladimir Putin

 


E' iniziata la fuga degli uzbeki, verso il confine, verso la valle di Ferghana che congiunge Uzbekistan e Kirghizistan. «Non c'è tempo da perdere», è il drammatico appello alla comunità internazionale di Andrea Berg, rappresentante di Human Rights Watch a Osh. In città si continua a sparare, ha raccontato, e non ci sono più voli, né auto, né trasporti pubblici, né elettricità. Il cibo comincia a mancare, si rischia una crisi umanitaria. «Non abbiamo bisogno delle autorità kirghize – ha detto per telefono all'agenzia Reuters un attivista per i diritti umani di etnia uzbeka, Dilmurad Ishanov – abbiamo bisogno della Russia. Abbiamo bisogno di aiuto, di truppe».

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