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C'era una volta il mago Obama

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Questo articolo è stato pubblicato il 13 giugno 2010 alle ore 13:56.

Lascio questa settimana il tema, pur dominante, dei debiti pubblici europei e del loro difficile finanziamento futuro, per tornare su una questione del tutto diversa ma non meno importante che periodicamente si ripropone, e cioè lo scarto fra la politica estera del presidente Obama e le illusioni con cui la si è improvvidamente circondata. Aspettavamo un messia che cambiasse il mondo e troviamo un presidente alle prese con un alleato tradizionale come la Turchia che va per la sua strada, con un Iran sempre più provocatorio e con una questione nord coreana che non si sposta di un millimetro. Obama sta fallendo?

Nelle scorse settimane ha riscosso consensi il libro di Charles Kupchan, How Enemies become Friends. The Sources of Stable Peace («Come i nemici diventano amici. Le fonti della pace stabile», Princeton University Press), il cui titolo riflette bene le aspettative e fa capire l'entità della delusione. Ma ancora una volta ci dobbiamo chiedere se l'errore, più che nella politica estera effettivamente svolta da Obama, non stia proprio in quelle aspettative, che hanno peccato di una ingenuità e di una assenza di pragmatismo, che francamente non sono imputabili al nuovo Presidente.

Sì, è vero, lui disse quello «yes we can», con il quale mobilitò un'America disorientata attorno alla necessità del cambiamento. Ma quella formula felice di campagna elettorale e la stessa retorica della mano offerta a chi nel mondo aprirà il pugno chiuso non erano la promessa del miracolo e solo chi le ha lette in questa chiave ha ragione oggi di sentirsi deluso. Diciamoci la verità e spero che non appaia troppo brutalmente franca. Chi si è fatto trascinare dall'emozione della novità, ha pensato ad Obama come al salvatore preannunciato da John Lennon con il suo bellissimo Imagine all the people. E ha pensato quindi che un mondo multipolare, segnato da un maggiore equilibrio fra le nazioni e dalla ricerca della pace promuovendo non conflitti, ma un tessuto di relazioni (quello che si chiama l'engagement) sarebbe stato quel "girotondo intorno al mondo" cantato dai bambini dello Zecchino d'oro.

Non è così e del resto neppure Charles Kupchan la vede così, al di là del titolo troppo accattivante del suo ultimo libro. La sua lunga analisi storica lo porta a concludere – come ha giustamente notato Gary Hart nel commentare il libro – che la pace stabile si fonda sulla messa a nudo degli interessi rispettivi che le parti in conflitto possono avere e sulla creazione di condizioni che le portano a preferire la tutela condivisa di tali interessi all'incertezza e allo scontro. E sono condizioni non facili da creare, anche perché gli ostacoli sono spesso, non nella vicenda internazionale in sé, ma nei sentimenti che essa suscita nelle arene politiche interne, dove l'accusa di cedimento al nemico è sempre in agguato e dove le fortune politiche di singoli leader o di interi partiti sono a volte interamente costruite sulle ragioni dello scontro.

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Tags Correlati: Charles Kupchan | Gary Hart | Iran | John Lennon | Obama | Politica | Stati Uniti d'America | Steven Cook | Turchia | Unione Europea

 

Non basta dunque il candore dei buoni sentimenti, serve un'azione paziente e in genere lunga di contatti e serve trovare più arene a cui allargare utilmente il negoziato, senza escludere fasi inevitabili di conflitto (le sanzioni all'Iran) e mirando non a diventare amici o partner, ma semplicemente a convivere senza farsi del male. Poi, negli anni, la storia farà il suo corso, partendo non dalla guerra ma dalla pace e questo basterà da sé a preparare destini migliori, e magari anche a intrecciarli, per coloro che verranno.

Non è più idilliaca la situazione da prefigurare quando si parla di un mondo multipolare, in quanto tale non affidato né agli allineamenti rigidi della Guerra fredda né alla forza decisionale di un'unica superpotenza. Ma davvero è una scoperta che in un mondo del genere anche nei tradizionali alleati emergono interessi propri, strategie geopolitiche o regionali almeno in parte diverse, con le quali è necessario che anche un paese leader faccia i suoi conti? Ed è quindi un mondo non più facile, ma più difficile, nel quale non bastano la simpatia e la benevolenza per ritrovarsi col seguito di un tempo.

Lo scrive giustamente, in un articolo apparso il 6 giugno su Foreign Policy, Steven Cook, il quale ha l'unico torto di mimare il titolo di Kupchan, parlando di un mondo in cui si trovano non Friends (amici), ma Frenemies (amici-nemici). Questi giochi di parole non aiutano a capire la sostanza e la sostanza, che nell'articolo di Cook è quasi per intero dedicata alla Turchia, porta lo stesso Cook a constatare che i turchi non sono frenemies, ma aspirano semplicemente a un ruolo di leadership nella regione, che finisce per entrare in concorrenza con quello tradizionalmente esercitato anche in essa dagli Stati Uniti. Ed è un ruolo - nota l'autore - che scaturisce non dal Corano, ma dalla forza economica acquisita dalla Turchia, dalle opportunità per l'appunto economiche che le si aprono negli stati vicini, dalla ritrosia infine dell'Unione europea nell'aprirle la porta.

Il paradosso è che questo delude i sostenitori di Obama, per i quali evidentemente il discorso che il presidente fece un anno fa al Parlamento di Ankara doveva portare all'idillio fra i due paesi, ma non sembra deludere invece né Obama né la sua amministrazione. Nel documento sulla strategia per la sicurezza nazionale diffuso dalla Casa Bianca nel maggio scorso, c'è la lucida e ribadita consapevolezza che la leadership nel mondo di oggi non è un a priori, ma un risultato a cui giungere avvalendosi della forza economica interna, delle alleanze che si riuscirà a rafforzare e dei rapporti di cooperazione che si riusciranno a creare.

È un approccio nuovo rispetto a quello tradizionale, ma di questo si tratta, non di Imagine all the people. E al di là dei pianti e dei rimpianti infondati, le domande che è giusto porsi davanti ad esso sono due. La prima è se l'America conservatrice, ove tornasse a governare, reggerebbe una politica estera così difficile o non finirebbe per preferire, se non l'isolazionismo, un ripiegamento rispetto all'esposizione attuale. La seconda è quanto sarebbe importante l'Unione Europea, se l'Unione Europea fosse all'altezza, sia per assecondare il difficile disegno di Obama, sia per evitare di conseguenza la tentazione del ripiegamento.

Al tavolo del mondo multipolare è cruciale che alcuni dei partecipanti condividano, se non tutto, almeno i valori di fondo su cui il futuro va costruito. Guardiamoci intorno: un'intesa del genere, per le mille ragioni che tutti conosciamo, può esserci soltanto fra Stati Uniti ed Unione Europea. E si ha un bel dire che Obama non ci ama e ha la mente altrove. Sappiamo benissimo che cosa dovremmo fare noi, e per ora non lo facciamo, perché dia fiducia a una partnership preziosa per il mondo e per lui. Del resto, col presidente Napolitano proprio di questo ha parlato.
Giuliano Amato
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