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Gli eurobond per guardare oltre la crisi

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Questo articolo è stato pubblicato il 17 giugno 2010 alle ore 08:38.
L'ultima modifica è del 17 giugno 2010 alle ore 08:38.

Il governo italiano ha minacciato di usare il veto per bloccare le decisioni del Consiglio europeo di oggi se la riforma del Patto di stabilità non sostituirà il criterio del debito pubblico con uno riferito al debito aggregato (sia pubblico, sia privato). Anche se il concetto di debito aggregato è importante - e rende maggior giustizia a paesi come l'Italia che hanno minor bisogno di ricorrere a finanziamenti esteri - quella scelta dal governo è una strada poco utile e forse controproducente.
Anche se si accentuasse la visibilità del debito aggregato, lo stato dovrebbe comunque rivolgersi al mercato per finanziare il proprio fabbisogno. I tassi d'interesse pagati sui titoli di stato italiani corrispondono a una domanda specifica di quei titoli da parte di investitori la cui offerta di fondi - sulla cui base i tassi si fissano - è sia estera sia italiana. I rendimenti includono un premio di rischio legato alla potenziale insolvenza del debitore pubblico italiano o alla liquidità dei titoli, sottolineare che molti investitori in BTp sono italiani non cambierebbe di nulla il rendimento richiesto dal mercato.

La richiesta di sdrammatizzare il criterio del debito pubblico dà al contrario l'impressione di una minore determinazione italiana nel contrastarne la continua crescita. Un eventuale successo in sede di Consiglio europeo inoltre indebolirebbe la pressione da parte dei partner europei nel chiedere disciplina al nostro paese.
L'indicatore del debito aggregato infatti evidenzierebbe la fragilità di altri paesi, in particolare dell'Irlanda. Ma è davvero augurabile che "l'Europa" eserciti minore disciplina sull'Italia? Non è questo che ci ha evitato negli ultimi anni di compiere errori fatali di politica di bilancio? Non è per lo stesso governo un'utile sponda politica poter dire ai molti richiedenti di fondi pubblici «mi spiace non possiamo, l'Europa non ce lo permette»?

Anziché affrontare una battaglia inutile con i toni dell'orgoglio nazionale, varrebbe la pena di cercare una proposta al tempo stesso più europea e più utile. Corrisponde a questi requisiti la proposta di emettere eurobond, cioè titoli del debito pubblico emessi in comune dai paesi della zona euro. Si tratta di una proposta non nuova, ma che dopo il 2009 ha perso slancio. Mai come oggi invece avrebbe senso.

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Quello che è successo dal 2007 a oggi è un'inversione a U degli investitori dalla ricerca del rischio alla ricerca della sicurezza. In Europa questo ha significato essenzialmente l'acquisto di titoli pubblici tedeschi (e fino a poco tempo fa francesi). Il differenziale dei titoli degli altri paesi è andato ampliandosi in ragione della percezione dei rischi che scuotevano i mercati.

I titoli greci o spagnoli, ma anche italiani, hanno sofferto per il rischio d'insolvenza e soprattutto per quello di non liquidabilità dei titoli. Gli spread tra prezzo d'acquisto e di vendita si aprivano al punto da rendere impossibile operare. Gli investitori (in particolare quelli che lavorano sulle leve finanziarie) temono di non poter muovere le proprie posizioni e quindi finiscono per puntare sui pochi titoli liquidi.
Come conseguenza il Bund decennale tedesco - sia al riparo dai rischi di default sia da quelli di liquidità - è stato molto richiesto e ha finito per rendere pochissimo. Anche questo basso rendimento rappresenta però un rischio. Chi acquista ora il Bund e non pensa di tenerlo in portafoglio per dieci anni, sa che dovrà venderlo in un momento in cui i tassi potrebbero non essere più così straordinariamente bassi e quindi sa di andare incontro a una perdita nel valore capitale. Non è uno scenario ideale per l'afflusso di capitali dall'estero e infatti l'euro ha finito per soffrire.

Per questo intreccio di ragioni, avrebbe particolarmente senso proporre oggi l'emissione di un titolo europeo rappresentativo dei debiti pubblici. Un euro-titolo che avrebbe dimensioni così vaste da creare un mercato certamente liquido, incontrando anche un'offerta stabile di fondi internazionali desiderosi di diversificare dal dollaro alla vigilia di una fase storica in cui i finanziamenti dei debiti diventeranno uno dei problemi chiave dell'economia globale.
Proposte tecniche di diversa natura sono state presentate negli anni passati per evitare alcuni possibili inconvenienti (chi è l'emittente di fatto? Quale il rendimento?) e per rendere accettabile sia finanziariamente sia politicamente per la Germania l'emissione di titoli pubblici con rendimento più alto degli attuali (Gros-Micossi, De Grauwe, Delpla-Weizsaecker e altri).

I paesi più indebitati continuerebbero a pagare un premio più alto per i propri rischi d'insolvenza, ma eviterebbero il premio sul rischio d'illiquidità. Soluzioni "Pareto-ottimali", tali cioè da avere effetti nell'insieme positivi senza peggiorare la condizione di alcun paese, sono possibili.
Berlino sembra riuscita a imporre una certa disciplina fiscale ai paesi partner e l'emissione di eurobond potrebbe essere la contropartita a completamento di un virtuoso pacchetto. Un vantaggio importante per il governo tedesco sarebbe inoltre quello di alleviare la pressione sulla Banca centrale europea impegnata ad acquistare titoli pubblici dei paesi a rischio con funzioni ambigue di sostituzione della politica fiscale.

Proprio le banche dei paesi con tassi più bassi - Germania e Francia - hanno in portafoglio titoli dei paesi a più alto rischio in ragione di un carry trade interno alla zona euro durato dieci anni con una percezione distorta del rischio. Alla fine del 2009, le banche francesi e tedesche avevano esposizioni verso Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo di 958 miliardi di dollari pari al 61% del totale delle banche euro.
Calcolando un differenziale medio fra tassi tedeschi e tassi dei paesi periferici di 70 punti base, nei dieci anni dell'euro esposizioni così ampie avrebbero significato guadagni aggiuntivi per le banche tedesche e francesi di circa 70 miliardi di euro. Se a questo si aggiungono gli investimenti in titoli sovrani, i trasferimenti di reddito tra i paesi periferici e il centro della zona euro sono di gran lunga favorevoli a questi ultimi. Questa situazione non è solo paradossale, è insostenibile. Garantita una cornice fiscale più solida - e non più debole, come rischia di fare la proposta italiana - è possibile varare un eurobond che faccia sì che i capitali vadano dove sono gli impieghi più produttivi, rendendo ragionevole la deflazione a cui si assoggettano i paesi periferici.

cbastasin@piie.com

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