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Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2010 alle ore 08:42.
Giorno dopo giorno, i nodi della legislatura arrivano al pettine. E fra questi nodi non c'è dubbio che il federalismo, o meglio l'aspetto fiscale del federalismo, resta al primo posto. Il che spiega l'attivismo di Umberto Bossi negli ultimi giorni. Il capo della Lega si muove lungo un angusto sentiero. Da un lato la lealtà verso il ministro dell'economia, suo alleato storico. Dall'altro le istanze delle regioni che si sentono tartassate dai tagli imposti dalla manovra economica. È la consueta dialettica fra centro e periferia, ma declinata in forme nuove perché la Lega oggi è saldamente partito di governo: a Roma e da qualche mese in due importanti regioni settentrionali, Veneto e Piemonte.
In altri tempi la Lega sarebbe stata in prima fila nel difendere le regioni e nell'accusare l'insensibilità romana che, diminuendo le risorse, punisce i territori «virtuosi» a tutto vantaggio delle aree sprecone. In altri tempi Bossi per primo avrebbe denunciato il tentativo di sabotare per questa via il progetto del federalismo fiscale. Non è difficile immaginare a quali argomenti sarebbe ricorso: avrebbe detto che il governo centrale è nemico del Nord perché colpisce solo chi lavora e produce, mentre protegge chi vive di assistenza nel Sud. Perciò, avrebbe insistito, si rende necessaria la rivolta al fine di imporre, costi quel che costi, la nuova legge del federalismo.
Ma oggi il quadro è completamente cambiato. Potrebbe essere un bene, perché il Bossi prudente e realista di oggi si sta confermando politico di spessore. Capace di muoversi con abilità nelle difficoltà e di ritagliarsi un ruolo cruciale. Se si osserva il quadro generale, si capisce che è stato proprio Bossi a sgombrare dal campo la farraginosa e pasticciata legge sulle intercettazioni. Era chiaro a tutti tranne, chissà perché, a Berlusconi che quel testo avrebbe provocato solo danni alla maggioranza. Equivaleva a una mina posta sotto i rapporti politici e istituzionali nel momento in cui proprio la manovra economica richiede un minimo di concordia nazionale. Richiede, ad esempio, che la relazione tra Palazzo Chigi e il Quirinale sia costruttiva e che in Parlamento l'opposizione non sia costretta per frustrazione a ricorrere a metafore belliche del tipo «faremo come in Vietnam».