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Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2010 alle ore 08:20.
L'Europa conquisterà quote di mercato nell'economia post-crisi se le sue imprese saranno in grado di farlo; la Germania esporta più di quanto importi, la Spagna meno, perché la struttura industriale nei due paesi è diversa: vi parrà ovvio, ma così non è. Provate a leggere il dibattito degli ultimi mesi sugli squilibri dei conti con l'estero europei. Raramente si parla d'imprese, quasi sempre di domanda aggregata, tassi di cambio, bilanci pubblici e così via. La stabilità macroeconomica è fondamentale, ma nel lungo periodo la bilancia commerciale dei paesi europei dipende dalla capacità delle aziende di esportare e fare investimenti esteri. Dunque, politiche strutturali che permettano a queste di crescere, diventare più efficienti e innovative dovrebbero essere in prima linea nella strategia per la competitività dell'Europa.
Provate a prendere 15mila imprese europee divise tra sette paesi. E provate a guardare in questa immensa popolazione di produttori come è fatto un campione della globalizzazione: per semplicità, un'impresa che esporta in molti mercati (diciamo più di 20), che è presente in paesi emergenti difficili, ma in rapida crescita come Cina e India e che magari ha anche un'unità di produzione all'estero. Bene, il campione tedesco assomiglia a quello italiano, a quello spagnolo e a quello francese: ha una dimensione di almeno 50 addetti, una buona quota d'impiegati laureati, investe in ricerca e sviluppo e innova. Ma se i campioni sono tutti uguali, ovunque risiedano, perché allora la Germania esporta più di Francia, Spagna e Italia? Semplicemente perché ha una proporzione maggiore di campioni, una struttura industriale più adeguata ai mercati internazionali. Questo è il messaggio principale che emerge dall'indagine curata da chi scrive con Matteo Bugamelli e Fabiano Schivardi sulle operazioni globali delle imprese europee.
E l'Italia? Dal confronto diretto con i concorrenti europei emergono luci, ombre e un possibile percorso virtuoso. Incominciamo dalle luci. La nostra capacità imprenditoriale è chiara: è più frequente che le imprese italiane esportino e se lo fanno vendono di più all'estero degli altri, qualunque sia il settore a cui appartengono e qualunque sia la loro dimensione. E le ombre? Le caratteristiche delle imprese, soprattutto la struttura dimensionale, frenano la performance complessiva del paese. Le nostre imprese piccole sono certamente straordinarie, ma nella concorrenza globale del mondo post-crisi fanno una maledetta fatica. Se prendessimo tutti gli addetti degli esportatori italiani (senza aumentarne il numero) e li trasferissimo in aziende con una dimensione equivalente a quella tedesca, ossia in media più grandi, il valore delle nostre esportazioni di manufatti aumenterebbe del 35%, circa 130 miliardi di euro in più, rispetto ai valori del 2008. Come mai? Due le ragioni: la natura della concorrenza e la geografia dei mercati.