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Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2010 alle ore 08:14.
Un'altra crisi? Si spera di no e, in fondo, l'economia globale sembra avere lo slancio necessario per proseguire, in modo forse sempre non vivace ma continuo, sulla strada della ripresa. Qua e là, però, emerge qualche dubbio. In Eurolandia, naturalmente, dove si teme che il rigore possa essere eccessivo o, più probabilmente, prematuro; ma anche altrove. Sottovoce si comincia a temere un futuro grigio pure nei paesi risparmiati dalle paure degli investitori: la Gran Bretagna, il Giappone e, innanzitutto, gli Stati Uniti.
La situazione americana merita molta attenzione. Qui è nata la crisi finanziaria, nel centro di quegli squilibri globali su cui le turbolenze hanno attecchito. I problemi che oggi incatenano Eurolandia sono persino più gravi negli States: il debito pubblico (lordo) sarà pari a fine anno - secondo le previsioni di JPMorgan - all'88% del Pil, contro l'83,7% di Eurolandia, e il deficit sarà al 10% del Pil, contro il 6,6% dell'Unione monetaria. Le differenze strutturali tra le due aree economiche contano, ma solo fino a un certo punto: nel 2013 - spiegano Joseph Lupton e David Hensley - Eurolandia, pur diversificata al suo interno, sarà più vicina alla sostenibilità fiscale degli Usa.
Perché preoccuparsi, però, se la crescita americana appare brillante (+5,6% nel quarto trimestre del 2009, +3 nel primo del 2010, fino al 4%, si prevede, nel secondo) e l'inflazione - almeno quella core, senza energia e alimentari - sembra cominciare pian piano ad allontanare lo spettro della deflazione? Il problema, in realtà, non è nel ciclo economico: lo stimolo fiscale e monetario ha sicuramente alleviato le pene. Si può sostenere - come fanno gli economisti eterodossi, e liberisti, di scuola austriaca, piuttosto ascoltati a Wall Street - che il redde rationem sia stato solo rinviato e che i debiti privati siano stati semplicemente sostituiti da quelli pubblici: Marc Faber, per esempio, immagina il collasso finale, e globale, entro 5-10 anni mentre Peter Schiff immagina gli investitori scommettere presto, dopo aver sfidato l'Unione formale dell'euro, contro l'area informale del dollaro (Usa + Asia). Nel frattempo, però, le cose non vanno malissimo.