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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2010 alle ore 09:40.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2010 alle ore 09:46.
Nel 1974 Edward Heath pose questa domanda: «Chi è che governa, il governo o i sindacati?». Cinque anni dopo gli elettori del Regno Unito pronunciarono la sentenza definitiva eleggendo Margaret Thatcher. La versione aggiornata di quella domanda suonerebbe così: «Chi è che governa, il governo o i mercati finanziari?». Una risposta chiara non è ancora stata data, ma questa potrebbe essere la domanda chiave dello scontro politico nei prossimi cinque anni.
Da un certo punto di vista, la manovra di emergenza che il governo della Gran Bretagna varerà la prossima settimana è semplicemente lo sviluppo logico di un teorema astratto. La premessa implicita dell'imminente taglio delle spese è che le economie di mercato sono sempre in una situazione di piena occupazione, o se non lo sono ci tornano rapidamente. Ne consegue che una misura di stimolo, non importa se monetaria o di bilancio, non può migliorare la situazione esistente. Un aumento della spesa pubblica non fa che togliere soldi al settore privato; stampare moneta non fa altro che causare inflazione.
Queste tesi sono una riedizione del celebre "Treasury View" del 1929, che Keynes contestava sostenendo che la domanda può essere inferiore all'offerta e, quando questo succede, il vizio pubblico si trasforma in virtù. Durante una crisi, il governo dovrebbe aumentare e non ridurre il proprio deficit, per compensare il disavanzo del settore privato. Qualsiasi tentativo da parte dello stato di aumentare i tassi di risparmio (ossia di pareggiare il bilancio) non farebbe che peggiorare la crisi. Questo era il suo "paradosso della parsimonia". L'attuale corsa alla parsimonia mostra che la riconversione ai principi keynesiani che ha seguito il collasso finanziario del 2008 era solo superficiale.
Ma questa versione dei fatti da sola non basta a spiegare la conversione all'austerità. I politici che chiedono a gran voce tagli alla spesa pubblica non citano gli economisti della Scuola di Chicago. Parlano della necessità di ristabilire «la fiducia nei mercati». La tesi di fondo è che i deficit provocano un danno serio perché minano la fiducia delle imprese. Questo crollo della fiducia può assumere diverse forme: paura di un aumento delle tasse, paura dell'insolvenza, paura dell'inflazione. Il deficit quindi ritarda la ripresa naturale (e rapida) dell'economia. Se i mercati sono giunti alla conclusione che il disavanzo è dannoso, bisogna accontentarli, anche se si sbagliano. Quello che gli operatori di mercato credono diventa realtà, non perché le loro convinzioni siano vere, ma perché agiscono sulla base di esse, vere o false che siano.