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Cina più cara, il mondo ci guadagna

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Questo articolo è stato pubblicato il 22 giugno 2010 alle ore 08:59.
L'ultima modifica è del 22 giugno 2010 alle ore 08:59.

La Cina alla fine ha reso più flessibile il suo tasso di cambio. Proprio mentre la Honda ha offerto un aumento del salario del 24% agli operai della sua fabbrica di cambi per automobili in Cina per evitare uno sciopero rovinoso. La Foxconn, la società appaltatrice taiwanese che lavora per la Apple e la Dell, ha annunciato aumenti salariali addirittura del 70 per cento. Shenzhen, per evitare problemi, ha annunciato un incremento del 16% del salario minimo. Le autorità municipali di Pechino hanno preventivamente alzato il salario minimo del 20 per cento.

Il risultato sarà che le esportazioni cinesi diventeranno più costose e crescerà la domanda di carburante da importare. La Cina dovrebbe vedere questi incrementi salariali come la prova del suo successo. Redditi più alti sono un corollario più che normale della crescita economica. L'unica differenza in Cina è che l'aggiustamento finora è stato soffocato, e ora arriva tutto insieme. Sarebbe stato meglio se le autorità avessero incoraggiato l'aggiustamento prima e con più gradualità.

Con le esportazioni di prodotti lavorati che diventano più costose, la Cina per crescere dovrà produrre qualcos'altro. Dovrà abbandonare la strategia fondata sul settore manifatturiero come motore della crescita e procedere in direzione di un'economia più matura, dove l'occupazione si concentra sempre più nel settore dei servizi.
La Cina non potrà mai competere con l'India come esportatrice di hi-tech e servizi alle imprese, perché non ha, come quest'ultima, una quantità importante di anglofoni madrelingua. Ma ci sono ampi margini per espandere l'offerta di servizi al consumatore e alle imprese, per un mercato interno ancora molto poco sfruttato e sempre più prospero. Questo è uno degli aspetti sottolineati da Stephen Roach, economista capo della Morgan Stanley, nel suo ultimo libro, The Next Asia.

La buona notizia, come fa notare Roach, è che il settore dei servizi, rispetto all'industria, comporta un consumo inferiore delle risorse naturali e crea più occupazione. Il primo aspetto è positivo per i cambiamenti climatici, il secondo per la stabilità sociale della Cina.

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Tags Correlati: Apple | Corea del Sud | Dell | Foxconn | Gaia Seller | Giappone | Mercato del lavoro | Pechino | Stephen Roach

 

Ma la cattiva notizia è che la transizione che ora viene chiesta alla Cina (passare a un'economia di servizi senza subire un calo significativo della crescita della produttività in generale) è qualcosa che non ha precedenti in Asia. Tutte le economie asiatiche ad alto tasso di crescita e forte livello d'industrializzazione che hanno provato a farlo in passato sono andate incontro a un significativo rallentamento dell'economia.

Il problema non è solo che nel terziario la produttività tendenzialmente cresce meno velocemente che nell'industria. Nelle economie asiatiche a forte intensità manifatturiera che sono passate a un'economia di servizi, la crescita della produttività nel terziario è stata molto bassa anche rispetto agli standard internazionali.
In Corea del Sud e in Giappone, per citare due esempi chiave, il problema non è semplicemente che la produttività dei servizi è cresciuta a un ritmo pari ad appena un quarto di quello registrato per un decennio dal settore manifatturiero, è anche che la crescita della produttività nel settore dei servizi è stata appena la metà di quella degli Stati Uniti.

Quali sono le ragioni di questo fenomeno? Nei paesi che tradizionalmente hanno dato la preferenza all'industria, il settore dei servizi, non sufficientemente sviluppato, è dominato da piccole imprese, società a conduzione familiare, che non hanno le dimensioni per essere efficienti, la capacità per sfruttare le moderne tecnologie informatiche e le strutture per la ricerca. In Corea del Sud, nell'ultimo decennio, meno del 10% della ricerca si è indirizzato sul settore dei servizi, contro il 50% degli Stati Uniti. Non serve dire altro.

Sia in Corea del Sud che in Giappone, l'ingresso delle grandi aziende nel settore dei servizi è ostacolato da normative restrittive, difese a spada tratta dalla potente lobby dei piccoli produttori. La legge vieta ai grossisti di operare anche nella distribuzione al dettaglio, e viceversa. Le imprese straniere, che dispongono di competenze e tecnologie organizzative, non possono entrare nel mercato nazionale. Commercialisti, architetti, avvocati e ingegneri si sono adeguati alla tendenza e sfruttano la presenza di requisiti restrittivi per l'abilitazione per limitare l'offerta, la concorrenza e l'ingresso di studi esteri. È facile immaginare commercianti, macellai, operatori sanitari cinesi seguire la stessa strada. I risultati sarebbero devastanti. Il valore aggiunto del settore manifatturiero in Cina cresce dell'8% l'anno: se Pechino sarà tanto incauta o sfortunata da seguire l'esempio di coreani e giapponesi, la crescita della produttività nel settore dei servizi difficilmente potrà viaggiare a un ritmo superiore all'1% annuo.

Creare occupazione in settori dove la produttività ristagna non è la ricetta ideale per la stabilità sociale. La Cina deve evitare di seguire la stessa strada dei suoi vicini, dove il disinteresse pregresso per il settore dei servizi ha creato una classe corporativa che usa mezzi politici per difendere la propria posizione. Forse la Cina riuscirà a evitare di fare la stessa fine. Ecco almeno un vantaggio non sgradevole del fatto di non essere una democrazia.

(Traduzione di Gaia Seller)

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